Scrivere salva
Ho incontrato Frank Conroy (1936-2005) tanto tempo fa, quando dirigeva lo Iowa Writers Workshop, la scuola di scrittura creativa più famosa al mondo. Era l’autore di una manciata di libri, il più celebre dei quali esce ora in italiano: “Stop-Time” (Fandango, traduzione di Matteo Colombo, pp. 350, euro 19,50), un memoir pubblicato la prima volta nel 1967, che diede subito una certa fama all’autore -fama che è poi cresciuta silenziosamente nel tempo. Tuttavia, benché Conroy sia divenuto col suo libro uno scrittore particolarmente caro ad altri scrittori, la sua stella non ha mai toccato la grande popolarità che forse avrebbe meritato.
Conroy veniva da una famiglia piuttosto squinternata – padre americano con seri problemi psichici, madre danese eternamente déracinée.
“Stop-Time” racconta appunto le sue origini, fra New York e la Florida alla fine degli anni Trenta e i primi Quaranta del Novecento, fino alle soglie della giovinezza: il libro finisce infatti quando l’autore ha diciotto anni e, dopo un periodo passato in Europa (in Danimarca, a Parigi), torna negli Usa per studiare all’università, avendo già intravisto la propria vocazione di narratore.
Scritto in maniera asciutta e lucida come la lama di un coltello, “Stop-Time” ha avuto l’indubbio merito storico di dimostrare che la buona letteratura non conosce distinzioni di genere: iscritto alla categoria del memoir, il libro venne giustamente letto fin da subito come un romanzo, il protagonista e io narrante essendo una specie di cugino più riflessivo del celebrato giovane Holden. Non so che cosa potrà suggerire oggi a un giovane lettore italiano: se non, forse, che la scrittura rimane ancora e pur sempre una delle poche vie di salvezza concesse a noi disgraziati
(“l’Espresso”, 16 gennaio 2015)