Quanti servi in giro per l’Italia

di Nello Ajello

La libertà, ammoniva Cicerone nel De republica «non consiste nell’avere un buon padrone, ma nel non averne affatto». Per attribuire il giusto peso alla differenza, è istruttivo il caso Italia all’inizio di questo XXI secolo (a patto, s’intende, di dubitare che il padrone sia buono). Il lettore capirà senza sforzo di cosa stiamo parlando. Per arricchirne le meditazioni, si può suggerirgli il volume di Maurizio Viroli, La libertà dei servi (Laterza, pagg. 144, euro 15).

L’autore, docente di teoria politica a Princeton, veste da sempre, con successo, l’abito dello storico dei fatti italiani. Qui, inclinando al gusto del pamphlet, lo fa con molta efficacia. Ci si trova a sfogliare un vademecum delle recenti vicende italiane: i materiali di cronaca sono presentati in una versione culturalizzata che li rende appassionanti.

Gli scrittori che Viroli chiama a sorreggere la sua narrazione vanno da Tacito e Plutarco, passando per Machiavelli, Goldoni e Baldassarre Castiglione, Gioberti e Mazzini, fino a Calamandrei, Salvemini, Sylos Labini, Bobbio o Sartori. Che l’Italia si trovi alla mercè di un «potere arbitrario ed enorme» ed esposta ai soprusi di una corte degradata può non apparire una scoperta; ciò non toglie che la messe di esempi addotta da Viroli riesca convincente. Per cominciare, “la libertà dei servi”, della quale noi usufruiamo, si colloca all’opposto da quella “libertà dei cittadini” cui una minoranza del Paese ambirebbe. A renderci «servi» è la presenza di «uno troppo grande sopra gli altri, che è cosa perniziosissima nelle repubbliche» (scriveva Filippo Rinuccini, antico memorialista fiorentino). Ma se qualcuno, fra i lettori, non gradisce il ricorso a testi “datati”, si può indicargli nel libro un ritratto in versi che un anonimo contemporaneo ha dedicato ai personaggi che usano scortare in goffi abiti sportivi il premier durante le esibizioni podistiche che lui capeggia, d’estate, sui bordi delle proprie ville al mare: «Mi è venuta un’idea, – lo dirò con una battuta: – vestivano i servi un dì la livrea – oggi la tuta».

A proposito di poesie, non mi era ancora capitato, per mia ignoranza o distrazione, di scorrere l’ode che Sandro Bondi ha intitolata A Silvio: Forse qualcuno la giudicherà un pò monotona. Eccola: «Vita assaporata – Vita preceduta. – Vita inseguita – Vita amata – Vita vitale – Vita ritrovata – Vita splendente – Vita disvelata – Vita nova».

Se posso osare, mi sembrano più commoventi i due versi finali della ballata che il medesimo poeta ha dedicato a Fabrizio Cicchitto: «La mia fede – è la tenerezza dei tuoi sguardi. – La tua fede – è nelle parole che cerco». Arrivo comunque a preferire a tutto questo i due inni, «Meno male che Silvio c’è» e «La Pace può», che celebrano la potenza e la generosità del Signore di Arcore. Almeno lì si respira un afrore plebeo. Così come, rispetto alla figura del cortigiano-poeta mi paiono più suggestive quella del giullare – a tale dignità Viroli elegge il cantante Mariano Apicella – e perfino quella del buffone di corte, per la quale viene candidato Emilio Fede.

Vedremo sparire simili esuberanze encomiastiche? L’autore lo ritiene poco probabile, ameno a breve. Occorrerebbe «riscoprire, o imparare, il mestiere di cittadini», capire «il valore e la bellezza dei doveri civili». Bene che vada, i «servi emancipati» diventano liberti: mostreranno ancora a lungo «nella schiena l’anchilosi dell’assuefazione agli inchini». La frase la coniò Piero Calamandrei in una data non casuale: 1945. Ma c’è, stavolta, una variante da considerare con onestà: adesso si tratta di servi volontari. Ecco, in fondo, perché un libro come questo suscita frequenti sorrisi, ma non troppe speranze.

(Articolo pubblicato su “La Repubblica” del 6 luglio 2010, p.54)

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