L’angelo rovesciato
di Carlo Bersani
Il novecento è duro a morire. Questo fa pensare il volume di Attilio Scarpellini (L’angelo rovesciato. Quattro saggi sull’undici settembre e la scomparsa della realtà, edizioni Idea, 2009, € 18,00), intitolato alla figura di un uomo che cade lungo la perfetta rete di linee di un grattacielo. E’ una delle più note e intollerabili icone dell’11 settembre, questa che viene ricondotta a un “angelo rovesciato”: un rovesciamento reale, del tutto indipendente dal punto di vista di chi guarda. Non basterebbe capovolgere l’immagine né per impedire all’uomo di schiantarsi, né per farne l’icona di un’ascesa. Su questo punto, insiste il libro, una certa intellighenzia occidentale (del “mondo libero”, si sarebbe detto un tempo) ha sbagliato strada: “dev’essere stato l’imbarazzo, o forse il pudore, a spingere Jean Baudrillard a trasformare in domanda quella che nel suo Lo spirito del terrorismo è un’affermazione che risuona in ogni pagina: l’attacco dell’11 settembre, loro lo hanno compiuto, noi l’abbiamo voluto. Noi, e cioè un’immaginazione terroristica che ci ‘abita tutti’” (p. 24). “Baudrillard non rende esplicito il suo modello, non svela la scena sacrificale – come la chiamerebbe René Girard – che si nasconde nelle argomentazioni de Lo spirito del terrorismo. Ma gli esiti morali in compenso sono gli stessi: per la tragedia e per il mito, dove c’è vittima, non molto lontano si trova la colpa che giustifica la sua persecuzione.” Da qui la rassicurante verità: “le torri di New York si sono suicidate” (pp. 27-28).
Purtroppo però confondere vittime e responsabili sembra avere un prezzo ontologico, oltre che morale: è appunto la realtà stessa che viene messa in discussione, letteralmente vanificata. Scarpellini, fra le altre cose, è un critico teatrale: mi pare incline a un teatro iperdisciplinare, in questo libro cita tra l’altro la Società Raffaello Sanzio, conosce benissimo la potenza del mito e delle sue rappresentazioni, e direi che la teme. Ogni realtà però è nuova per sua natura: quali strumenti, analitici e narrativi, occorrono per farsene il dovuto carico?
Non certo quelli dell’appropriazione identitaria. Uno dei meriti di questo volumetto, sta nel fatto che l’autore non si risparmia nemmeno La rabbia e l’orgoglio di Oriana Fallaci. Del resto, non c’è dubbio che quello sia un libro importante: la sua diffusione, e potenza editoriale, è stata ed è inversamente proporzionale al suo valore. Ma la storia delle idee com’è noto non è solo storia dei ragionamenti ben temperati. Scarpellini, parlando de La rabbia e l’orgoglio, ci ricorda quanto ancora siano verdi e rigogliose le radici di una certa necrofilia novecentesca, del vecchio Viva la muerte!, parecchio amato, peraltro, anche a sinistra.
Che fare, allora? Ecco sfilare alcuni grandi nomi della tradizione terroristica europea, dalle BR giù fino a Nečaev (evocato attraverso Dostoevskij, p.49). Con Nečaev si fa strada una vecchia conoscenza ottocentesca, il nichilismo (nemmeno il XIX secolo abbandona Scarpellini), su cui non casualmente si è tornati a riflettere abbastanza negli ultimi anni. E con il nichilismo, i suoi nemici: primo fra tutti quell’autore così straordinariamente opaco e limpido a un tempo che fu Camus.
Ma in questo libro sta in primo piano l’iconografia. Anzi: tutta una tradizione iconografica del massacro, dalle foto scattate su Hiroshima dall’Enola Gay, alle immagini dei corpi nel teatro Dubrovka (molto particolari i saggi su La veglia funebre in Kosovo e L’ombra di Hiroshima, pp.99 ss.). Ma in quasi tutte le immagini su cui Scarpellini ragiona c’è un corpo, o più di un corpo, o la sua ombra, o lo spazio che deve avere abitato. Quest’inclinazione costante a cercare, nell’immagine, l’impressione di un corpo, mi pare tradisca un debito verso una tradizione premoderna, almeno bassomedievale, di pensiero dell’umanità.
Tempo fa un libro che, per i temi, aveva qualche contatto con questo di Scarpellini, Orrorismo di Adriana Cavarero, proponeva fin dal titolo una nuova categoria interpretativa del rapporto fra violenza e visione. Scarpellini, piuttosto, pare dirci che i conti con la modernità sono lontani dall’essere fatti; e che, per farli come si deve, bisogna continuare a percorrerla, seguendo però le tracce di pietà e ragione.