Giorello, lezioni di ateismo liberale per chi rifiuta una fede intollerante
di Armando Torno
Domani uscirà il saggio di Giulio Giorello, epistemologo ed erede di Ludovico Geymonat all’Università di Milano, “Senza Dio. Del buon uso dell’ateismo” (ed. Il Saggiatore). Noto per le sue tendenze laiche e, tra l’altro, per aver partecipato alla Cattedra dei non credenti istituita a suo tempo dal cardinale Carlo Maria Martini, non ha scritto un libro — se ne contano dozzine — che cerca di demolire con ogni mezzo l’idea di Dio, ma si ricorda come essa sia viva nell’uomo da quando è apparso sulla terra. Non fa dell’ateismo basso o volgare, di quel genere che crede di liberarsi dal problema con formule o battute, cerca piuttosto — di autore in autore — una via. Nelle sue pagine vi sono figure di atei convinti quali Sade o Feuerbach, non disdegna però di mettere in gioco le proprie convinzioni con Pascal o Kierkegaard. Il filosofo a cui guarda con più simpatia è Spinoza, che non si può certo definire ateo. Questo lo pensavano Bayle — che comunque credeva alla possibilità di una società di atei diversamente da un Voltaire che riteneva necessario il vincolo religioso — e pochi altri.
L’ateismo di Giorello si basa su una scelta di vita: egli rappresenta l’uomo che non sopporta alcuna autorità sopra di sé. Accetta Dio come amico, non come padrone. Il suo è ateismo pratico. Non nasce da deduzioni epistemologiche ma da quelle — il termine è inattuale, in tal caso però vale la pena spenderlo — esistenziali. Nel quarto capitolo lo chiama «ateismo metodologico», perché prova una forte indifferenza verso ogni assoluto (in tal caso riprende uno spunto di Jean Petitot). Si direbbe anzi che il fine a cui tende quest’opera non sia quello di liberarci da Dio, ma di liberare Dio da quelli che parlano troppo sovente a vanvera nel suo nome e, in tale veste, fanno la loro parte per dar forza agli argomenti dell’ateismo volgare. Inoltre vengono denunciate tutte le «chiacchiere» sulla religione civile, ultimo esercizio da salotto televisivo. È altresì vero che Giorello prova una discreta dose di nervosismo anche nel sentir nominare la religione della libertà (con il dovuto rispetto a Croce).
Insomma, il libro è rivolto a un mondo senza imposizioni. In esso l’ateo può essere compagno di strada del credente e diventa un fatto naturale chiedersi come si possa vivere, agire, lottare, morire quando si conta solo su se stessi. È la sfida per un nuovo Illuminismo, nel quale si avverte il bisogno d’amore a cui un tempo si dava il nome di Dio. Da «ateo protestante» (così si è dichiarato l’autore), Giorello non cerca di dimostrare l’assenza dell’Essere Assoluto, ma di definire l’orizzonte di un’esistenza senza di esso, rifiutando rassegnazioni e reverenze, ritrovando i piaceri della sperimentazione nella scienza e nell’arte, riscoprendo infine la libertà, soprattutto quando essa appare eccessiva alle burocrazie di qualsiasi «chiesa». Morale: Giorello spinge il lettore verso un ateismo non dogmatico, utilizzabile anche da un credente stanco dei vari fondamentalismi, gli stessi che alla Grazia del Signore hanno sostituito la repressione e l’intolleranza. Una sua battuta? «Non credo molto a slogan tipo Comunione e liberazione; se proprio devo sceglierne uno, preferisco Libertà e individualismo».
(articolo tratto da “Il Corriere della sera”, 15 settembre 2010, pag.38)
Io credo che la maggior parte degli italiani che si professano atei, agnostici, che cambiano religione o che, semplicemente, non vanno alle celebrazioni tranne a Natale e a Pasqua sia solo stanca e delusa dai moltissimi errori che la Chiesa ha commesso e dalle sue decisioni oscure o poco chiare. E dalla sua autorità fino a non molto tempo fa indiscutibile (ovviamente, mi riferisco all’infallibilità della Chiesa).
Qualcuno si può sentire manipolato, a ragione.
Sin da piccoli la maggior parte di noi non ha potuto scegliere tra più credo religiosi ma, al contrario, ha imparato a ritenere sbagliati gli altri credo.
E’ proprio questo che ha portato e che porta ancora a conflitti e ad essere prevenuti in nome della religione.
In realtà, ciò che determina il nostro credo è per lo più l’ambiente in cui viviamo, non neghiamolo.
Anche i cristiani professanti, se fossero nati in un Paese musulmano, probabilmente sarebbero musulmani.
Io credo che si sia persa di vista la Religione, a favore della religione migliore.