Democrazie senza democrazia

di Giovanni Bianco

Nel vivace e costante dibattito sulla crisi della democrazia deve essere segnalato un denso e meditato contributo di Massimo L.Salvadori, insigne storico, contemporaneista, “Democrazie senza democrazia”(Laterza,2009).

Il volume si prefigge “di ragionare sul rapporto che corre tra la democrazia come ideale e le sue forme di attuazione, di illustrare le ragioni per cui l’ideale è entrato in rotta di collisione con la realtà.” E ciò soprattutto alla luce degli esiti perversi della globalizzazione economica:”la democrazia, sorta come mezzo per porre fine al potere totale o prevalente di monarchi e di gruppi oligarchici, è venuta infatti ad assumere il carattere di un sistema che ha riconsegnato per aspetti cruciali il potere a nuove oligarchie, le quali tengono le leve di decisioni che, mentre influiscono in maniera determinante sulla vita collettiva, sono sottratte a qualsiasi efficace controllo da parte di istituzioni democratiche.Si tratta sia di quelle oligarchie che, titolari di grandi poteri privi di legittimazione democratica, dominano l’economia globalizzata…; sia delle oligarchie di partito…”(p.IX).
L’incipit dell’opera è sin troppo chiaro: si tratta di discorrere su un concetto corroso dalla “ferrea legge delle oligarchie”, in un’epoca in cui si registra l’ecclisse dei certi punti di riferimento della modernità politica e giuridica,la sovranità statale, l’economia nazionale, la cittadinanza ecc.
Questo lo ha ben colto pure Gustavo Zagrebelsky (in “La finzione democratica. Quando comandano le oligarchie, “La Repubblica” del 19.6.2009, p.49), analizzando contestualmente il saggio di Salvadori e quello , altrettanto recente, di Giovanni Sartori (“Il sultanato”, Laterza, 2009). Si sono smarrite regole e garanzie.
Si vive il tempo degli “ossimori”: “la costituzione incostituzionale”(Sartori) o l'”oligarchia democratica”(Salvadori). E “la riflessione di Salvadori si allarga alla crisi mondiale delle democrazie, di cui la crisi italiana è solo un modesto esempio, alquanto grottesco. A fronte del trionfalismo democratico (la democrazia come “concetto idolatrico”, nel cui nome si fanno guerre imperialistiche) sta la realtà del suo svuotamento a opera di oligarchie che operano senza limiti e controlli su scala mondiale”.

L’illustre autore precisa sin dalle prime battute che la sua riflessione concerne la crisi della liberaldemocrazia, non potendosi oggi più parlare di democrazia diretta, così come si attuò nell’Atene di Pericle, nella Comune di Parigi e nel primo biennio della rivoluzione bolscevica (p.X-XI); liberaldemocrazia che comprende tre diverse fasi storiche, gli Stati borghesi e liberali, a “suffraggio ristretto”, dell’ottocento, gli Stati sociali pluriclasse, caratterizzati dall’azione dei partiti di massa, e l’età della globalizzazione economica, della perdità di quote di sovranità da parte degli Stati nazionali e “della trasformazione dei grandi partiti di massa organizzati sul territorio in “partiti leggeri”(p.XI).
Quest’ultimo lasso temporale viene letto con il filtro della categoria della “postdemocrazia”, elaborata dal politologo anglosassone Colin Crouch (v. “Postdemocrazia”, Laterza, 2003).
“I regimi che continuiamo a chiamare democratici in effetti non lo sono” (Salvadori, p.84), è in atto “un processo che non si concilia con la democrazia”.
Questo perchè se “la democrazia prospera quando aumentano per le masse le opportunità di partecipare attivamente”(Crouch,p.6), oggigiorno trionfano “le richieste minimali della democrazia”, “le elezioni continuano a svolgersi” e a “condizionare i governi”, ma “il dibattito elettorale è uno spettacolo saldamente controllato, condotto da gruppi rivali di professionisti esperti nelle tecniche di persuasione e si esercita su un numero ristretto di questioni selezionate da questi gruppi.La massa dei cittadini svolge un ruolo passivo , acquiescente, persino apatico, limitandosi a reagire ai segnali che riceve”(Crouch,p.6). “Il polo postdemocratico” determina disillusione, scarsa priorità per “le forti politiche egualitarie che mirino alla redistribuzione del potere e della ricchezza o che mettano limiti agli interessi più potenti”(Crouch,7), per cui i poteri economici forti,su scala nazionale e globale , si rafforzano, e “gli strumenti di influenza” del “demos” “appaiono indeboliti”.
Come scritto da Zagrebelsky, “la postdemocrazia è questo regime delle oligarchie del denaro, che possono comprare il consenso o, in mancanza, possono reprimere il dissenso, anche con l’uso della forza e persino della guerra”.

Da tale asfittica visuale si affievoliscono quelli che l’autore chiama “presupposti comuni” alla democrazia diretta ed a quella rappresentativa, cioè i tratti salienti della “democrazia in generale” quale “sistema politico”:”non si dà nel corpo politico e sociale la divisione tra soggetti legittimati a partecipare alle decisioni da cui derivano le leggi che regolano la vita associata e soggetti esclusi”; “la partecipazione politica si estende a tutti i componenti della cittadinanza”; questi ultimi “devono essere debitamente informati circa la natura delle decisioni all’ordine del giorno”, per “poter esprimere con efficacia il proprio consenso o dissenso ed esercitare il potere ultimo in relazione alla nascita, alla vita ed alla caduta dei governi”(p.9).
A ben vedere la ricostruzione del Salvadori vuole anche porre in risalto i tratti peculiari, “sovranazionali” e fluidi, delle “nuove oligarchie” rispetto, ad esempio, all’ “oligarchia democratica” del “sistema liberale classico”, in cui vi era il “suffraggio ristretto” per “mettere al riparo i possidenti dal tanto temuto assalto di quanti erano dotati di una proprietà giudicata insufficiente” e si realizzava “la sostanziale coincidenza…tra la società politica e quella parte della società civile la quale dava vita al processo politico in generale”(p.24).
D’altro canto la crisi che si sta vivendo, “nello specchio della globalizzazione”, è ben eterogenea dalle “cause” e dalle “modalità” delle crisi ricorrenti dei regimi liberaldemocratici”, non è il prodotto di gravi contrasti sociopolitici che si svolgono nell’ambito dello Stato nazionale, in cui si registrava periodicamente o l’avversione delle forze più conservatrici all’ascesa delle classi subalterne ed al “pluralismo politico e culturale”; o la lotta delle forze di sinistra che “combattevano le istituzioni liberaldemocratiche perchè “maschere” del potere delle classi alte, precostituite a difesa dei proprietari delle terre, delle fabbriche, delle banche…”(p.43).
Ponendoci, dunque, il quesito dell’ “in che cosa siamo” non si può non notare la presenza di una “pluralità di poteri” entro il formarsi di un “tipo di gerarchia dei poteri”, nei “sistemi poliarchici”, per riprendere il lessico di Dahl, che genera, nell’età della globalizzazione, fenomeni e processi che accentuano “il problema del pluralismo democratico”. Insomma, come scrive Dahl, “siffatto pluralismo” è “un ordine democratico, necessario e desiderabile”, ma “esso può contribuire a stabilizzare le ineguaglianze, deformare la coscienza civica, alterare l’ordine del giorno pubblico, ed alienare il controllo finale su quest’ultimoda parte del corpo dei cittadini” (Dahl, I dilemmi della democrazia pluralista (1982), tr.it,Milano, 1988, p.183, citato in Salvadori,p.86).
Sul punto le osservazioni dell’autore diventano incalzanti e pessimiste:”ma se gli stessi governi sono largamente ridotti alla condizione di “amministratori” locali del potere delle oligarchie della finanza e dell’industria collocati al vertice del mercato mondiale, come definire altrimenti la gerarchia dei poteri stabilitasi all’interno della “poliarchia” se non come un ordine che svuota la democrazia?”(p.86).
Dobbiamo, dunque, abituarci a ragionare sul tema considerando come “prerequisiti” imprescindibili la crisi della “democrazia dei partiti” (analizzata a pag.48sgg.), il tramonto dell’ “economia nazionale”, che opera nello spazio del territorio dello Stato (richiamata a pag.52sgg.), la “commercializzazione della cittadinanza” (su cui v. Crouch,p.89), la crisi degli enti statali quali istituzioni sovrane, enti “superiorem non recognoscentes”.

L’insigne storico solleva un questito, che può essere considerata la domanda di fondo del suo libro, che ruota intorno al cattivo stato di salute dei sistemi pluralistici contemporanei, che versano in uno stato di “crisi strutturale”: “chi ha oggi un maggiore spirito democratico? Colui che si accontenta, o chi non si accontenta dello stato di salute delle nostre democrazie?”(p.87).
La risposta è scontata, ma non ovvia: avere “spirito democratico” significa proporre antidoti, soluzioni ai problemi adeguati e realistici.
Questo è l’intento delle proposte che il Salvadori avanza, ad esempio,nelle prime pagine del libro: la rinascita democratica passa attraverso tre presupposti, “la capacità delle autorità politiche dei singoli Stati e degli organismi internazionali di porre sotto controllo le oligarchie economiche”, “la sottrazione ai potentati della finanza e dell’industria di un dominio sui mass media che vanifica la possibilità stessa di un’opinione pubblica informata in maniera veritiera e realmente pluralistica”, “un’energica azione volta a combattere l’eccesso di diseguaglianze economiche che rendono una parola vuota la solidarietà”(p.XII).
Di conseguenza, siamo difronte ad una sfida epocale in cui è in gioco il fondamento stesso della convivenza civile ed il complesso di importanti conquiste democratiche che si sono realizzate nel ventesimo secolo.
Questo Salvadori lo scrive a chiare lettere, a conclusione del testo, e dopo aver salutato con interesse e speranza la vittoria di Obama, quando ritiene che il “futuro della democrazia” dipenderà dal se “la “postdemocrazia” seguirà sempre più il suo corso oppure se la democrazia…sarà in grado di trovare nuovi significati e nuovi contenuti…”(p.93-94).
Per cui, il contrasto tra questi ultimi due tipi di sistemi politici potrà evolversi in un senso o in un altro, con conseguenze più o meno fosche per lo stesso pianeta.

Da ultimo, il testo, con metodo condivisibile, aderente ai fatti storici, alla “realtà effettuale”, si chiude tra un barlume di speranza, per l’elezione di Obama, e la consapevolezza del difficile superamento dei “governi a legittimazione popolare passiva”.
Il quadro, a ben vedere, non è apocalittico, ma è altamente fluido ed ombroso. Il problema della sopravvivenza della democrazia riguarda, senza dubbio, non soltanto il controllo delle masse sugli apparati negli Stati, ma, anzitutto, la “democratizzazione” della “governance globale”, dei poteri tecnici mondiali sprovvisti di legittimazione democratica – la banca mondiale, il fondo monetario internazionale e l’organizzazione mondiale del commercio (wto) -; il controllo del potere economico delle multinazionali, le politiche economiche e sociali sovrastatali e statali a favore dei ceti subalterni, che Salvadori definisce “nuovi paria”.
Così come, d’altro canto, un problema di democrazia, di superamento del “deficit democratico”, si pone anche, e da lungo tempo, per l’Unione europea e la sua forma di governo, per la “governance europea”.
Insomma, “la democrazia viene assimilata al bene”, ma “proprio mentre conosce i suoi maggiori trionfi, sotto la cappa della sua glorificata ideologia” “appare ed è profondamente usurata, diciamo pure degradata”(p.6).

 

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