Azionisti senza Partito d’Azione.Le idee di una diaspora feconda

di Arturo Colombo

Leo Valiani, Aldo Garosci e Carlo Ludovico Ragghianti: ecco una simbolica trinità laica, che svolse un impegnativo compito culturale e politico durante il difficile quindicennio dai primi anni Quaranta, quando militavano insieme nel piccolo Partito d’ Azione, fino alla metà degli anni Cinquanta, segnati dalla rivoluzione ungherese. Su questo capitolo importante della nostra storia contemporanea, Elena Savino ha composto un libro di straordinario interesse dal titolo “La diaspora azionista. Dalla Resistenza alla nascita del Partito radicale”(Franco Angeli, pp. 367, Euro 25). Quasi coetanei – Valiani nasce nel 1909, Garosci nel 1907, Ragghianti nel 1910 -, ad arricchire il legame fra loro furono la comune passione politica e il forte interesse per gli studi storici. Valiani ne diede prova con le sue ricerche sul socialismo, mentre Ragghianti si indirizzò verso la storia dell’ arte e Garosci seppe spaziare in settori anche lontani, dalla sua Storia della Francia moderna alle pagine sul mito di San Marino (ma converrà aggiungere anche Mario Pannunzio, direttore del settimanale «Il Mondo» e geniale interprete di Tocqueville). Impegnati contro il fascismo, reclamavano – come ogni azionista – la necessità di una «rivoluzione democratica» in un Paese, dove però tanti diffidavano di ogni seria ipotesi rivoluzionaria e non possedevano neppure una concreta forma mentis democratica. Da qui un fondo di amarezza nel constatare che dopo la Liberazione il Partito d’ Azione non riesce a consolidarsi, mentre si affermano i partiti di massa. Da un lato con la Dc, che ottiene forti consensi elettorali, e dall’ altro con il Pci, costretto a rimanere all’ opposizione, insieme ai socialisti. La «diaspora azionista» è un’ immagine eloquente, per indicare il processo che porterà alla rapida fine di quel partito, ma che, per fortuna, ha mantenuto attuali i temi di un processo di rinnovamento, soprattutto a livello sociale e economico, che l’ Italia è riuscita a realizzare in minima parte (basta considerare il bilancio negativo di certe pseudoriforme, in primis quelle riguardanti il Mezzogiorno). Sotto questo aspetto ha ragione la Savino di mostrare il costante idem sentire di questi ex azionisti, decisi a contribuire al concreto rinnovamento della sinistra democratica, fuori dalle rigidità ideologiche che per troppo tempo hanno condizionato soprattutto la composita area socialista. Lo sbocco finale sarà la nascita del piccolo Partito radicale nel 1955. Ma molto più di quell’ effimera «creatura» è il dibattito che l’ ha preceduta a spiegare le differenze fra i protagonisti. Così si capisce che il più deluso è Ragghianti, che non tarderà a tirarsi fuori da quell’ aspra (e per lui deludente) temperie politica, anche se nell’ estate del ‘ 56 tenterà il breve esperimento di fondare e dirigere «Criterio», mensile «di cultura società politica», con il proposito di veder realizzarsi «una coalizione della sinistra democratica e socialista», in grado di battere quello che Ragghianti considerava «il complesso reazionario-conservatore». Anche in Garosci, pur sempre osservatore acuto (come rivelano i suoi articoli su «Il Mondo») prevale un pessimismo, rattenuto ma insistente. Il più realista, e quindi il più «politico», si rivela Valiani, che intuisce quale ruolo avrebbe potuto svolgere il nuovo Partito radicale, e vi aderisce subito. Adesso, in sede di riesame storiografico, importa poco verificare che anche quel tentativo dei radicali non avrebbe avuto fortuna e si sarebbe risolto in un’ ennesima sconfitta elettorale. Molto più significativo rimane, a distanza di tempo, riflettere su quella sconfitta, che rivela quanto sia arduo passare da una diagnosi ragionata dei mali esistenti nel nostro Paese a una concreta terapia, della cui efficacia sappiano diventare convinti sostenitori un numero sufficiente di nostri concittadini. Forse, ancor oggi, troppo spesso succubi degli opposti estremismi.

(Articolo tratto da “Il corriere della sera”, 31 agosto 2010, p.41)

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