Un Dio non di regime
Una nostra lettera dell’8 maggio scorso, nella quale esprimevamo un dolente giudizio sul fatto che elezioni dai risultati sgraditi fossero mandate al macero della democrazia, come “elezioni rottamate”, dagli uni perché ne erano usciti sconfitti, dagli altri perché non abbastanza vincitori, ha provocato tre critiche.
Una di queste ci ha allarmato perché pur in modo assai amichevole poneva una sorta di “non expedit” (non si deve fare). Scriveva infatti Vincenzo Grimaldi di vedere “il rischio di un nuovo collateralismo. Penso che ‘abbiamo già dato’. Che ne dite?”. Insomma: non vi occupate di politica, perché voi siete “Chiesa” (sia pure di tutti e specialmente dei poveri) e la religione non si può giocare in queste cose: la lettera infatti era mandata a nome del sito “Chiesa di tutti Chiesa dei poveri”.
Su questo conviene spendere qualche parola. E’ evidente che tale critica è un residuo di una situazione del passato, quando c’era una relazione organica tra la Chiesa gerarchica (considerata tout court come “la Chiesa”) e il potere, quando i cattolici erano costretti per obbedienza di fede all’unità politica nel partito cattolico (il collateralismo) e un micidiale maritainismo (dal filosofo tomista novecentesco Jacques Maritain, amico di Montini) cercava di salvare il salvabile della laicità introducendo la schizofrenica distinzione tra quanto il fedele facesse “in quanto cattolico” (ligio ai dettati pontifici) e quanto facesse “in quanto cittadino” (libero nelle materie non considerate “miste”). E questa era la foglia di fico della Democrazia Cristiana, che in società doveva presentarsi come laica, se non addirittura aconfessionale.
Ma questo era il “regime di cristianità”, vissuto nel sogno di un potere indiviso, spirituale e temporale, ignaro della laicità, regime che è stato foriero della catastrofe della fede nella secolarizzazione e inerme e impari di fronte al precipitare del mondo nelle guerre e nei genocidi.
Però ne siamo usciti, almeno a partire dal Concilio, e oggi non ne parliamo nemmeno, c’è Francesco. Tuttavia quel regime ancora ci perseguita, è difficile tornare dalla cristianità al cristianesimo, gli anticorpi scatenati nel sistema ci immunizzano dalla malattia, ma ci paralizzano nell’azione. Così si spiega l’attuale irrilevanza dell’istanza cristiana in politica, il rifugio dei cattolici non del tutto privatizzati nel sociale, e il loro spensierato dilagare nei deprecati “populismi”: la Lega è uscita, come Giona, dal ventre della balena bianca dorotea del Nord; ma Giona non portava bene, e se era per lui, se non era per Dio, un Dio non di regime, Ninive sarebbe stata distrutta con “più di centoventimila persone e una grande quantità di animali”.
Perciò per la salvezza, e non solo delle anime, un Dio non di regime ci vuole. Delle anime non sappiamo, ma di corpi ne vediamo a migliaia gettati a terra o nel mare dalla morte e dall’impietosità della politica, e non solo a Gaza, né solo nel Mare non più “Nostrum” (quell’operazione l’aveva già chiusa Alfano, prima che arrivasse Salvini).
Poniamo allora, che il papa abbia ragione quando dice, non da uomo qualunque, ma da “cristiano sul trono di Pietro”, che questa economia uccide. E noi, cristiani di strada, ci limitiamo a seppellire i morti? Poniamo che il papa abbia ragione quando dice che questa è una società dello scarto. E noi che facciamo, laici di periferia, facciamo gli asili di colore o le scuole differenziate per disabili, perché “prima gli italiani” e gli studenti normodotati? Poniamo che il papa abbia ragione quando denuncia la globalizzazione dell’indifferenza. E noi, nipotini di don Milani, per paura di essere collaterali fuggiamo per la tangente, perché abbiamo già dato? Poniamo che il papa abbia ragione quando dice che il Dio della guerra non esiste. E noi, pacifisti alla Galtung non potremmo rovesciare l’assenza del Dio della guerra nella presenza del Dio della pace? I teologi del papa proclamano “l’irreversibile congedo del cristianesimo dalle ambiguità della violenza religiosa”, come svolta epocale per l’idea stessa di religione, e noi non dovremmo celebrare come martiri e pionieri della resistenza e nonviolenza cristiana uomini come Teresio Olivelli, Josef Mayr-Nusser e Aldo Moro? E se il papa dice ai movimenti popolari, ai lavoratori, ai poveri “continuate la vostra lotta” (siguen con su lucha) noi, a cui Paolo VI ha detto che la politica è la più alta forma di carità, che facciamo, diciamo che questo è integrismo?
Sono tornate nel lessico cristiano di questi anni due parole che evocano due errori dell’antichità, che in nuove forme minacciano anche i credenti di oggi,per farne degli gnostici o dei pelagiani; due errori evocati dalla lettera vaticana Placuit Deo e che a riassumerli con le parole di padre Narvaja sull’ultimo numero della Civiltà Cattolica, corrispondono a uno spirito senza mondo da un lato, e a un mondo senza spirito dall’altro, cioè segnano una netta scissione tra il mondo e lo spirito.
E’ l’antropologia dell’aut-aut; ma il cristianesimo è la fede dell’ et-et: il mondo e lo spirito insieme, l’uomo non alienato i cui tesori non sono “dispersi nei cieli”, e un Dio non di regime che senza uomo non può essere Dio, non può essere amore.
(18 maggio 2018)