Terroristi e sicari

di Raniero La Valle

Ci vuole il coraggio del papa per andare alla finestra domenica, nella giornata mondiale dei poveri, ad annunciare la fine del mondo: non la catastrofe ecologica che avverrebbe per colpa nostra, e che possiamo ancora evitare, ma la fine escatologica che sta nei piani di Dio, quando i cieli e la terra passeranno e il Signore verrà nella gloria e tutti vedranno il suo volto raggiante d’amore. Si trattava in realtà del coraggio di annunciare il Vangelo, opportuno o importuno che possa apparire. Nessuno però avrebbe potuto accusare il papa di proporre ai poveri l’alienazione di una ricompensa futura nei cieli ferma restando oggi la loro infelicità sulla terra, perché in tutti i modi egli sostiene la causa della loro liberazione e della loro lotta per avere giustizia già qui sulla terra.
Questo ci suggerisce un criterio per intendere il messaggio evangelico che papa Francesco sta riformulando nella sua globalità, in questo momento di svolta della storia umana e della Chiesa. E il criterio è che come nel Vangelo – se si vuole coglierne il senso profondo di rovesciamento rispetto al senso mondano e comune – non si possono prendere le singole parole separate dal contesto dell’insegnamento globale di Gesù, che è quello dell’amore, così si deve fare coi predicatori del Vangelo che lo trasmettono non solo col loro corredo di parole, ma attraverso la loro intera testimonianza. Tanto più questo avviene con papa Francesco, che parla con un linguaggio vivido e figurato, e che per far entrare il Vangelo nella testa e nel cuore della gente dice anche cose sorprendenti e paradossali, come del resto erano paradossali le parabole. Dice per esempio che la Chiesa è un ospedale da campo, che deve occuparsi degli infarti prima che del colesterolo, o che il confessionale non è una sala di tortura, o che la povertà è una prigione. Lo fa nel suo intento di rendere la predicazione di Gesù come se fosse a noi contemporanea, come se il Vangelo fosse scritto oggi.
Spesso, come anche nel Vangelo, le parole o i termini di paragone sono tratti dal campo penale. Succede per esempio nella rilettura sapienziale che nella catechesi del mercoledì egli sta facendo di tutti e dieci i comandamenti, “le dieci parole”. Anzi, parlando dell’ottavo, “Non pronuncerai falsa testimonianza contro il tuo prossimo”, ha detto che sono parole che appartengono proprio al linguaggio forense, e sono quelle che Gesù ha realizzato dando testimonianza alla verità nel processo dinanzi a Pilato; in questa luce papa Francesco ha legato la verità più all’amore che alla conoscenza, perché false relazioni impediscono l’amore, “dove c’è bugia non c’è amore, non può esserci amore”. E qui il papa ha fatto ricorso a una delle sue iperboli quando ha detto che “chiacchierare è uccidere” e che un chiacchierone o una chiacchierona è un terrorista, perché getta la bomba e se ne va, ma quella bomba distrugge una vita. È evidente che il papa non intendeva dire qui che bisogna consegnare i maldicenti all’Antiterrorismo.
Questo ci riporta a una precedente catechesi sui comandamenti, quella del 10 ottobre sul “Non uccidere”. Lì il papa, improvvisando una frase fuori del discorso scritto, disse che l’aborto è come “affittare un sicario”, e che interrompere la gravidanza è un modo di dire che significa “fare fuori uno”. Questa espressione di papa Francesco ha causato molto dolore, soprattutto in quelli che più lo amano, e ci sono state risposte severe, anche se rispettose, come quella dell’Ordine dei medici di Torino, di Dacia Maraini, di note femministe, di altri. Effettivamente quelle parole del papa, trasposte dal loro contesto a quello del discorso giuridico e politico venivano a colpire in Italia (e non solo) un nervo scoperto, perché significavano riportare la tragedia dell’aborto nell’abisso del diritto penale e fare delle donne, magari perdonandole, delle assassine; “ sicario” è infatti una parola che rinvia al codice penale, alla condanna, al carcere, all’ostracismo sociale.
Era stato proprio per uscire da questi inferni, e non per fare dell’aborto “un diritto”, come pretendeva la cultura laica del tempo, che in Italia nel 1978 avevamo fatto la legge 194 in Parlamento; facemmo quella legge in dialettica con la “durezza del cuore” della maggioranza del popolo, ma proprio con l’intento di riportare l’aborto da reato alla sua vera realtà di millenaria tragedia in cui massimamente è coinvolta la debolezza e la libertà delle donne; e la facemmo perché lo Stato le sorreggesse in questa debolezza favorendone la maternità e nello stesso tempo ne riconoscesse e rispettasse la congenita libertà. E se non tutte le sue norme furono buone fu anche per la cieca chiusura del partito cattolico che rifiutò di cooperare per volgerle al bene e per allontanarle dal male. E quando si riuscì ad ottenere che venisse cambiato insieme al contenuto anche il titolo della legge, non più solo come di norme per l’aborto, ma di “Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza”, non si fece ricorso a un modo di dire per significare che si potessero far fuori i concepiti, ma si intese tutelare la vita ed evitare che l’aborto fosse usato come mezzo di controllo delle nascite; e furono introdotti consultori e obiezione di coscienza così che la libertà di nessuno fosse lesa e il volontariato fosse legittimato a sostenere le donne per una scelta positiva.
E tuttavia nel ricordare o far sapere al papa queste cose, bisogna pur dire che sarebbe tradire il suo pensiero se dalle parole “sicario” e “uccidere”, prese alla lettera, si volesse dedurre un suo appello alla giustizia penale, così da spedire i chiacchieroni all’Antiterrorismo e in prigione le donne che abortiscono e i medici che le assistono. Il papa stesso, la settimana successiva, è tornato sul quinto comandamento per mostrare, al di là della lettera, l’ampiezza e la profondità del precetto divino del non uccidere, citando il giudizio radicale di Giovanni, “Chiunque odia il proprio fratello è omicida”, e la reinterpretazione dell’antica legge fatta da Gesù, per il quale non solo chi uccide è omicida, ma anche chi si adira con il proprio fratello o anche semplicemente lo insulta chiamandolo stupido o pazzo: cosa che non può essere presa alla lettera, non meno di quanto non si debba davvero cavarsi l’occhio o tagliarsi la mano che inducono al peccato.
È chiaro dunque che non può esserci nessun letteralismo nella ricezione del Vangelo e della parola di chi lo annuncia; sarebbe “un suicidio del pensiero”, come ha affermato la Pontificia Commissione Biblica; e dire “sicario” non era in quel caso meno paradossale e immaginifico che dire “terrorista”; però segnalava che non si può banalizzare l’aborto come se fosse un mezzo contraccettivo, c’è un problema serio lì, vi sono in gioco delicatissime alternative di vita.
Nemmeno si tratta qui di difendere la legge 194 che come tutte le leggi umane è scritta sulla sabbia. Però è buona l’occasione per dire che le donne da secoli sono in credito con la Chiesa che, se è ospedale da campo, dovrà pure assisterle e consolarle nei parti come negli aborti. E dovrà riconoscere che la sua scelta per la vita del figlio intanto è una scelta umana, in quanto è una scelta libera, come fu libero il sì della Vergine Maria che pur si trovò incinta in modo inconsueto. Decise in coscienza, senza imposizione di legge. La legge che nell’aborto toglie di mezzo reati e sicari, serviva e ancora serve a questo, a far sì che a nessun altro se non alla libertà di sua madre debba di essere venuto al mondo ogni nato di donna. Per questo ora forse le donne si aspettano una nuova parola dal papa. All’Angelus del 7 ottobre egli ha detto che alla Chiesa non è chiesta subito e solo la condanna riguardo a relazioni infrante nel matrimonio, così le donne a cui dolorosamente si è infranto l’arco di vita dal concepimento al parto vorrebbero, prima che una Chiesa giudice, una Chiesa che accanto a loro si senta “chiamata a vivere la sua presenza di amore di carità e di misericordia per mettere al riparo di Dio i cuori feriti e smarriti”.

(21 novembre 2018)

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