Senza pudore

di Paolo Pombeni

Quanto è accaduto al Consiglio dei Ministri e dopo in relazione al decreto che istituisce la festività del 17 marzo lascia più che sconcertati. Per quanto si potesse più che legittimamente discutere sulle modalità in cui era possibile approntare una appropriata celebrazione della ricorrenza del 150° dell’unità nazionale, quel che non doveva proprio accadere è che il governo si dividesse platealmente su un tema così delicato e che tanto quelli a favore quanto quelli contrari usassero spesso argomenti piuttosto bizzarri per giustificare le loro posizioni.
Se vogliamo essere franchi, dobbiamo riconoscere che la vicenda delle celebrazioni del centocinquantesimo non sono state gestite bene sin dall’inizio. Non si è mai deciso veramente su cosa dovessero incentrarsi le celebrazioni (su una data simbolica o su una lunga vicenda di storia nazionale condivisa), si è lasciata fiorire senza una salda regia una ridda di iniziative ed interpretazioni, non ci sono state forti reazioni culturali al solito festival di quelli che, scusate la brutalità, debbono sempre fare i fenomeni con storielle sui lati oscuri del Risorgimento e della storia seguente e sulla “revisione” fumettistica di eventi storici.
Questo ha portato a decidere in maniera confusa e all’ultimo minuto un atto simbolico forte da parte dello Stato, senza di nuovo sapere bene quale dovesse essere e come si poteva farne un evento che coinvolgesse visibilmente la nazione. Si è scelto così di farlo nel modo più ovvio e “tradizionale”, la concessione di un “giorno di festa”, cosa che forse oggi non riveste più quel significato simbolico che poteva avere vari decenni or sono, cioè la liberazione dai compiti normali della vita di ciascuno perché si potesse accorrere tutti alla “celebrazione civile”: ormai, ammettiamolo, un giorno di festa è più che altro un giorno di “vacanza” (privata, magari con relativo “ponte”).
Detto questo per far vedere come non ci nascondiamo dietro un dito, aggiungiamo subito che ciò non giustifica affatto quello che è avvenuto, perché dietro le varie riserve (mancanza di copertura,necessità di non interrompere il ritmo produttivo, ecc.) purtroppo non c’erano forti proposte alternative per rilanciare e sostenere una vera “celebrazione nazionale”, ma solo, ci sembra, o lo scetticismo sull’impossibilità di fare questa celebrazione o addirittura la soddisfazione per avere boicottato una celebrazione in cui non ci si voleva riconoscere.
E’ accettabile tutto ciò? Noi pensiamo francamente di no. Un paese non può tagliarsi da solo la capacità di celebrare una radice comune senza il rischio di scivolare in una federazione di bande di vario tipo, ciascuna con la sua identità di parte. Un governo non può spaccarsi su un argomento tanto delicato, per di più portando in piazza, anche con parole decisamente pesanti, i dissensi di un partito chiave della sua coalizione. Una volta in casi come questi si sarebbe usato richiamare al fatto che i bambini ci guardano, che ci guarda il mondo intero, per invitare a qualche forma di pudore pubblico, almeno in politica. Per quanto siano sentimenti che non vanno più di moda, sono sentimenti fondanti per il cemento di una nazione, perché ci sono davvero “bambini” che ci guardano e un sistema internazionale che già si chiede dove stiamo andando e che certo da quanto accaduto non trarrà motivo per rivedere le sue perplessità.
Non crediamo sia accettabile che il compito di celebrare l’unità d’Italia sia ristretto al Festival di San Remo e alla capacità di tenere la scena e di muovere i sentimenti del pur bravissimo Roberto Benigni. Va tutto benissimo in un contesto in cui la regia rimane saldamente in mano alle istituzioni che, non dimentichiamolo, hanno ereditato la loro posizione da quella storia; non funziona invece se queste istituzioni non sono capaci di esercitare una leadership.
Certo c’è la posizione del Presidente Napolitano, che però finisce per apparire sempre più solitaria. Anche lo scandalizzarsi dell’opposizione per quanto successo sembra infatti abbastanza strumentale, visto che essa, nelle sue varie componenti, non ha mai preso veramente in mano il problema di quelle celebrazioni promuovendo una seria riflessione sul significato di questo secolo e mezzo di storia in comune.
Noi siamo purtroppo un paese in cui alla storia è sempre stato riservato uno spazio scarso, a meno che non si potesse piegarla a strumento per qualche manipolazione di parte. Una seria opera di costruzione di una lettura condivisa del nostro passato è sempre stata ostacolata, o quanto meno marginalizzata, perché avrebbe messo in crisi le varie letture partigiane, avrebbe costretto a capire che non esistono “radiose giornate”, ma tanti giorni difficili in cui un popolo, con la normale tortuosità delle vicende umane, costruisce, nonostante tutto, il suo essere una “comunità di destini”.
Eppure proprio per questo toccava alle istituzioni nel loro complesso, ed ovviamente innanzitutto al governo, preparare per tempo una vera “celebrazione”, che non è lo sfavillio di un po’ di retorica, ma è il chiamare a manifestare nelle maniere dovute una pubblica consapevolezza del “miracolo” che ci ha portati a costruire lungo un secolo e mezzo quello che noi oggi siamo (ed anche a riflettere sul fatto che lo stiamo mettendo a rischio, e per di più anche piuttosto… alla leggera.

(“Il Messagero”, 19 febbraio 2011, pag.1 e 20)

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