Se ne va un pezzo di Adista. Anzi, rimane con noi. E’ morto Giovanni Avena

di Valerio Gigante

Nel momento in cui lo scriviamo ci pare impossibile. Eppure la lunga malattia che ne ha segnato gli utlimi anni di vita ci avrebbe dovuto preparare. Da ieri, 4 settembre, Giovanni Avena non c’è più. Si è spento serenamente, verso le 23.

Giovanni Avena non ha fondato Adista, ma è come se lo avesse fatto. Se non l’ha fondata, l’ha rifondata. È stato infatti tra i protagonisti della trasformazione della testata (1979) da agenzia della Sinista Indipendente a cooperativa di soci impegnati nell’idea di una informazione libera dai condizionamenti del potere economico, ecclesiastico, partitico, profondamente incarnata in una prospettiva evangelica, di sinistra, laica e pluralista.

In questi casi si dicono spesso frasi tipo “senza Giovanni Adista perde una parte importante della sua storia”. Ma non è così. Adista è Giovanni, nel senso che il suo contributo ha profondamente cambiato il giornale e la vita di ciascuno di noi che lo ha incontrato, conosciuto, stimato. Ciascuno di noi del collettivo di Adista porta dentro qualcosa della sua testimonianza umana, politica ecclesiale. E ogni giorno nel lavoro che facciamo, nelle relazioni che abbiamo, qualcosa di Giovanni  vive attraverso di noi. Nulla di lui è perduto, se non la possibilità, che abbiamo avuto anche nel lungo periodo della sua malattia, di confrontarci con lui, di avere il suo punto di vista sulle vicende attuali, sulle questioni della gestione della cooperativa, sulle iniziative da prendere per rilanciare la nostra informazione.

Giovanni era nato nel 1938. È stato per molti anni prete e parroco. A Palermo, dove divenne parroco della parrocchia del Cuore eucaristico di Gesù in corso Calatafimi, (1971), poco dopo che il card. Pappalardo – che inizialmente lo teneva in grande considerazione – era diventato arcivescovo della diocesi, era un prete stimato e di grandi prospettive. Poi le sue posizioni (a livello politico ed ecclesiale, a partire dalla sua posizione a favore del divorzio) gli alienarono progressivamente il favore della Curia. A ciò si aggiungeva la sua posizione intransigente rispetto al malaffare della Democrazia Cristiana e al connubio tra Chiesa, politica, criminalità mafiosa.

Ma soprattutto, la vita di Giovanni cambiò il giorno in cui volle entrare nell’’ospedale psichiatrico che era collocato proprio al centro del territorio parrocchiale, tra via Pindemonte e via Giuseppe Pitrè, che erano esattamente i confini della parrocchia. Divenuto parroco, il suo primo pensiero fu di entrare in quella struttura, con lo stesso spirito con cui voleva entrare nelle case dei parrocchiani per far fare amicizia aprire un dialogo con loro.

Si accorse di una situazione ai limiti dell’immaginabile, oltre ogni concetto di dignità umana. Giovanni iniziò così una lunga battaglia per i diritti umani calpestati di quei malati che nemmeno venivano considerati esseri umani. Lì dentro, anche tanti bambini. Bambini dai 7-8 anni in su.

Attraverso il suo impegno e con molta fatica Giovanni riuscì a far uscire, almeno per qualche ora, alcuni dei malati reclusi, a fargli fare qualche attività, mettendoli in contatto con la parrocchia e il quartiere. Nel frattempo, saldando la sua iniziativa anche con le lotte di Basaglia e di altri psichiatri democratici per la chiusura dei manicomi, denunciava le terribili condizioni in cui versava l’ospedale.

Alla fine riuscì a liberare almeno i bambini da quella realtà. Ma pagò il prezzo dell’allontanamento dalla parrocchia e dalla diocesi. E molti dei malati che aveva liberato furono nuovamente internati nell’ospedale. Fino alla legge che finalmente chiuse i manicomi. Ma per alcuni di loro fu ormai troppo tardi.

Era il 1977 e Giovanni, che riesce a ottenere l’incardinazione nella diocesi di Frascati, trova casa a Roma. Si reca ad Adista, che aveva parlato di lui negli anni delle sue lotte come parroco di punta a Palermo, e inizia a collaborare. Da lì, rapidamente, diventa un punto di riferimento per la redazione e il braccio destro (e pure il sinistro) del presidente della cooperativa e direttore storico di Adista, Franco Leonori. Quando Franco Leonori va in pensione, assume direttamente un incarico – quello di presidente e amministratore – che già nei fatti esercitava da tempo, mentre Eletta Cucuzza prendeva la direzione della testata.

Di esercitare il ministero smise progressivamente, dalla metà degli anni ’90. Soprattutto dopo l’arrivo nella diocesi di Frascati di mons. Matarrese, succeduto a mons. Luigi Liverzani, che lo aveva accolto benevolmente. Alla Chiesa cattolica non chiese mai nulla. Non voleva la congrua e l’8 per mille. Non volle nemmeno chiedere la dispensa dal ministero, per non sentirsi nell’obbligo di giustificare le sue scelte e di farne giudicare la bontà a una gerarchia a cui non riconosceva questo diritto. Conobbe in quegli anni Ivana, che sarebbe diventata sua moglie nel 2006, con cui ha vissuto una splendida storia d’amore e che lo ha accudito con enorme dedizione fino alla fine.

Per oltre 40 anni Giovanni è stato il punto di riferimento di una galassia di realtà, personalità, intellettuali del variegato mondo della sinistra cristiana. Sono pochi quelli che non lo hanno chiamato per avere un commento, un parere, un consiglio. Rispondeva a tutti, giornalisti vaticanitsti compresi (che lo chiamavano ogni volta che accadeva qualcosa di rilevante per avere la sua puntuale e radicale lettura dei fatti) con generosità e senza mai pretendere nulla per sé, nemmeno che venisse citato. O che venisse ricordato il suo contributo alla stesura di centinaia di lettere, discorsi, comunicati, articoli, appelli che ha contribuito a promuovere o a far circolare.

Per raccogliere sottoscrizioni per il giornale ha letteralmente girato l’Italia. Spesso in un weekend partecipava a due tre eventi in città diverse. Viaggiava in treno, dormiva in cuccetta, parlava di Chiesa, attualità, politica. E poi chiedeva a tutti di abbonarsi a Adista, affinché le idee che sentiva circolare negli incontri a cui partecipava avessero in Adista lo strumento per diffondersi.

Per il collettivo di Adista è stato il punto di riferimento fondamentale sia dal punto di vista organizzativo, che da quello intellettuale. Non si chiudeva numero a Adista senza prima portare le bozze del giornale a Giovanni, affinché rivedesse la lunghezza dei pezzi, la loro disposizione, e la loro titolazione. Lui suggeriva, tagliava, trovava sempre titoli fulminanti (i titoli di Adista per moltissimi anni sono stati un suo marchio di fabbrica).

Quando, ormai malato, ha progressivamente lasciato le sue responsabilità, delegandole a altri, si è percepito tutto l’impegno, il peso, l’importanza di ciò che aveva fatto, con dedizione e nell’ombra. Solo facendo ciò che aveva fatto lui ne abbiamo percepito appieno l’importanza e la straordinarietà.

(adista.it/articolo/66605 , 5 settembre 2021)

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