Ritorna in scena il partito democratico

di Eugenio Scalfari

È molto difficile in queste settimane di tensione politica, giudiziaria, mediatica, che ci sia in Italia un evento tale da esimerci dallo scandalo Berlusconi. Se ne è dovuto occupare, nel linguaggio appropriato che è quello della più alta istituzione dello Stato, il nostro Presidente della Repubblica e se ne è dovuto occupare addirittura il Papa. E ovviamente se ne occupano i giornali per soddisfare il legittimo diritto dei loro lettori ad essere informati.

Ieri Ezio Mauro ha indicato ancora una volta la linea del nostro giornale: a noi non interessano i comportamenti privati delle persone che rientrano nell’ambito della loro libera scelta; a noi interessano i comportamenti non saltuari ma ripetuti fino a esser diventati uno stile di vita d’un uomo pubblico, anzi del più importante degli uomini pubblici, che sono inevitabilmente di (cattivo) esempio all’insieme dei cittadini e che contrastano con l’articolo 54 della Costituzione secondo il quale il rappresentante di un’istituzione deve tenere alto il decoro dell’ente che rappresenta.

Voglio qui citare le parole con le quali Walter Veltroni ha aperto ieri il suo discorso al Lingotto di Torino, dedicate proprio a questo tema, perché in quelle parole ci riconosciamo interamente: “Un uomo di governo che minaccia i giudici che lo indagano: sono le agghiaccianti parole pronunciate da Berlusconi nell’ultimo suo messaggio televisivo”.

“Ciò che dava più dolore – ha aggiunto Veltroni – è che quella espressione minacciosa sulla “punizione” dei magistrati veniva pronunciata davanti alla bandiera tricolore. Nessuno può dimenticare che per difendere l’onore di quella bandiera e di questa nazione molti magistrati hanno dato la vita. La situazione in cui l’Italia si trova è davvero grave e pericolosa. Il presidente del Consiglio è accusato non di comportamenti ma di gravi reati. Egli sostiene per l’ennesima volta che solo di fandonie e di complotti si tratta. Ma non lo deve dire in Tv facendosi scudo del suo ruolo e utilizzando il suo impero mediatico. Deve dirlo ai magistrati, come ogni cittadino”.

Ho citato Veltroni perché l’evento sul quale mi sembra doveroso oggi riflettere e commentare è il suo discorso, la risposta di Bersani, l’ingresso – finalmente – del Partito democratico in un’arena politica dove finora era mancata la presenza della maggiore forza d’opposizione. Quest’assenza suscitava sconcerto e turbamento, molti davano per liquidato il riformismo democratico italiano e il vuoto che a causa di quell’assenza si stava creando rendeva ancor più difficile lo sblocco d’una situazione sempre più insostenibile.

Ieri questo vuoto è stato colmato o almeno sono state poste le premesse perché lo sia. Con lucidità di pensiero e con fermezza d’intenti.
La maggior forza d’opposizione è finalmente entrata in campo con un obiettivo e un programma. Ora il quadro è finalmente completo ed è questo che dobbiamo esaminare: la sua efficacia, la sua capacità di modificare gli equilibri e di sanare gli squilibri, l’accoglienza che potrà ricevere da un Paese turbato, insicuro, arrabbiato.

Una prima osservazione riguarda la riapparizione di Veltroni sulla scena politica dopo due anni dal Congresso del 2008 e un anno dalle dimissioni da segretario del partito.

Ha parlato da leader, con la passione e l’eloquenza d’un leader ed anche con il senso di unità e di generosità che un leader deve avere, il desiderio di fare squadra, di rilanciare una scommessa all’insegna del cambiamento. “Dobbiamo uscire dal Novecento”, ha detto e ripetuto più volte e più volte ha cercato di scrollare di dosso il fin qui diffuso rimprovero che veniva mosso al Pd e a tutta la sinistra, d’essere paradossalmente diventato una forza conservatrice anziché innovativa.

“Non ci potrà mai essere una forza più radicale della nostra” ha detto “perché più radicale del nostro riformismo non ci sarà nulla e nessuno”. E citando Mark Twain: “Tra vent’anni sarete più delusi per le cose che non avrete fatto che per quelle che avrete fatto. Quindi mollate le cime. Allontanatevi dal porto sicuro. Prendete i venti con le vostre vele. Esplorate. Scoprite. Sognate”.

La platea del Lingotto e probabilmente i democratici militanti e i tanti diventati indifferenti o addirittura ostili per delusione subita, è questo che aspettavano: non di perenne attracco ai porti dove impera il politichese, la conservazione dell’esistente, le rivalità tra capi e capetti, tra galli e galletti, ma il coraggio di fronte alle novità e la capacità di affrontare il mare aperto.

Bersani è un uomo concreto. D’Alema un politico fine. Franceschini un combattente esperto. Enrico Letta un abile diplomatico. All’interno di un recinto. Veltroni ha anche lui queste qualità insieme ai difetti che in tutti rappresentano l’altra faccia dei punti di forza; ma possiede un “in più” che nessuno degli altri ha: è capace di evocare un sogno. Non il sogno dell’utopia, ma quello che emerge dalla realtà.
Si discute spesso del carisma e della sua definizione. Spesso il carisma sconfina nel populismo ed è quello di Berlusconi. Ma ci fu il carisma di De Gasperi, che certo non era un populista, e quello di Berlinguer, quello di Ugo La Malfa, quello di Craxi, quello di Pertini. C’è stato uno specialissimo carisma di Ciampi e quello di Romano Prodi e quello, impalpabile perché volutamente privo d’ogni retorica, di Giorgio Napolitano.

Ebbene, c’è anche un carisma di Veltroni: il realismo che evoca il sogno di un’Italia nuova e di una nuova frontiera. Veltroni ha ricordato nel suo discorso Roosevelt e Luther King e la nuova frontiera kennedyana. Potrà funzionare oppure no il suo carisma, ma nel Pd oggi è il solo che possieda quel requisito e se non lo saprà usare la responsabilità sarà soltanto sua.

Le sue proposte politiche, economiche, sociali, sono state “offerte” come suggerimenti al gruppo dirigente e agli organi del partito, dei quali si è ben guardato dal mettere in discussione il ruolo. Ma erano suggerimenti così precisi e circostanziati, così “oltre” il politichese corrente da costituire un programma e una strategia.

A partire dall’Europa, che non deve e non può diventare uno Stato, ma deve però esprimere un governo che guidi l’economia del continente e un Parlamento che sia eletto direttamente da tutti i cittadini dell’Unione.

E poi: una politica economica che abbia come obiettivo la crescita, la cultura, la ricerca; una politica finanziaria volta alla riduzione del debito pubblico; un patto con i ceti abbienti per farli contribuire al finanziamento necessario a ridurre il debito con un prelievo patrimoniale diluito in tre anni così come fu fatto nel 1998 con la tassa per l’ingresso nell’euro; una politica dei redditi in favore delle donne, delle famiglie, dei giovani, dei lavoratori, delle partite Iva, delle imprese, ottenuta con sgravi concretamente indicati; il federalismo visto come autonomia delle comunità. “L’Italia – ha detto con molta efficacia – è la comunità delle comunità, un Paese molteplice, la cui molteplicità può essere una grande ricchezza o una grande sventura ma che comunque non potrà mai esser cancellata perché è iscritta da secoli nella nostra storia”.

Ha detto anche parole molto chiare sul caso Marchionne, l’altro evento che ha fatto irruzione nella nostra immobile economia. Un’irruzione positiva secondo Veltroni, che ora però dovrà dimostrare la sua capacità di vincere la sfida del mercato con nuovi modelli di auto, nuovi investimenti, un piano industriale adeguato associando però i lavoratori al controllo e alla partecipazione nell’azienda agli utili ed anche al capitale e assicurando la rappresentanza di tutti i lavoratori senza discriminazioni.
Infine la lotta alla mafia e alla corruzione, indicando anche qui gli strumenti concreti per renderla efficace.

C’è stata, nel discorso di Veltroni, anche un’apertura a Vendola, un invito a collaborare e a non chiudersi nei veti, nel massimalismo e nell’utopia. In realtà quell’apertura è stata possibile perché Veltroni – così penso io – è il solo nel Pd che possa ridimensionare Vendola. Anche il governatore con l’orecchino è portatore d’un sogno. Se si confronta soltanto col politichese, il sogno di Vendola vince anche se isolerebbe la sinistra in una presenza puramente testimoniale. Ma se il sogno vendoliano e la sua “narrazione poetica” si confronta con un sogno che emerge dalla realtà, allora l’orecchino non basta a fare la differenza anche se può dare un contributo ad un riformismo “ben temperato”.

La risposta di Bersani è stata una presa d’atto all’interno della cornice indicata da Veltroni. Una presa d’atto coraggiosa e costruttiva, l’invito a fare squadra e a vitalizzare le strutture del partito, rinnovandole se necessario, spronando i democratici alla battaglia.

Bersani ha un suo modo di parlare paesano e colloquiale. Dopo il discorso di Veltroni così teso e intenso, faceva uno strano effetto, di quelli che spesso Crozza provoca quando lo imita a “Ballarò”. Uno strano effetto ma molto positivo, di chi ricorda che un partito è comunque lo strumento di filtraggio sia della realtà sociale sia del sogno d’una nuova frontiera. Ma su questo non c’era contrasto con Veltroni, che aveva concluso il suo discorso con l’elogio della politica, quella praticata con la maiuscola, come il solo strumento che consenta la realizzazione del bene comune.
Oppure del male comune, come quello in cui il Paese è sprofondato e dal quale deve riemergere se vuole ancora avere un futuro.

(articolo tratto da “La Repubblica” del 23 gennaio 2011)

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