Le risposte non date il crimine peggiore

di Guido Crainz

Ancora una volta la corruzione sembra essere, almeno in parte, lo specchio del Paese: del degradare del suo ceto politico ed imprenditoriale e, più ancora, del suo vivere civile. Così fu, prima ancora di Tangentopoli, in quei processi di dieci anni prima che già la annunciavano.
Ma che nei dorati anni Ottanta furono largamente rimossi. E così fu dopo quella bufera, nella nuova esplosione iniziata nel 2010 e proseguita poi: dallo scandalo della Protezione civile alla “P3” del faccendiere Flavio Carboni, che avevamo già trovato con Ortolani e Gelli e che era ora in collegamento con Dell’Utri e Verdini. Sino a moltissimo altro. Più in generale, una Tangentopoli continuata e aggravata che aveva mutato natura e privilegiava ora il “rubare per sé” sul “rubare per il partito” (sino al “rubare al partito” dei Tesorieri della Lega e della Margherita). Il “primato del sé” dell’età berlusconiana, insomma, coniugato rigorosamente su tutti i versanti.
Difficile stupirsi se nelle diverse scene di questo pessimo film ricompaiono con pesanti rughe, e non solo sul volto, comprimari di questa o quella inquadratura precedente. Scene rivelatrici, tutte: già nei processi liguri del 1983 ritrovammo il socialista Alberto Teardo, comparso poco prima nelle liste della P2. E in quella Liguria, e in quello stesso 1983, iniziava per altri versi la sua carriera di imputato l’allora democristiano Claudio Scajola. Luigi Bisignani, poi, è transitato dalla P2 alla condanna nel processo Enimont e poi alle indagini del 2011 per la “P4”, ed è ricomparso ancora qualche mese fa. Dal canto suo Luigi Grillo, senatore del Partito Popolare nel 1994 dopo una ventennale carriera democristiana, garantì per un soffio la fiducia al primo governo Berlusconi uscendo dall’aula (ed entrando immediatamente in quel governo come degno sottosegretario alla Presidenza): l’inizio di una nuova carriera e al tempo stesso il precoce annuncio dell’era degli Scilipoti.
Il Libano, poi, è storia ancor più vecchia: negli anni Sessanta, mezzo secolo prima di Dell’Utri, vi aveva trovato rifugio un presidente del Milan di allora: il bancarottiere Felice Riva che aveva gettato sul lastrico migliaia di operai del Cotonificio Vallesusa (e aveva illuminato così qualche risvolto meno fulgido del nostro miracolo economico). Difficile fare confronti con chi lo ha seguito ora e anche con l’ex ministro dell’Interno Scajola, accusato di aver favorito la latitanza di un condannato per concorso esterno in associazione mafiosa. Amedeo Matacena junior, già fondatore e deputato di Forza Italia in Calabria: il senior lo avevamo visto quarant’anni fa nella rivolta di Reggio accanto al caporione fascista Ciccio Franco.
C’è qualcosa che inquieta, poi, nel ritrovare sul mercato le “competenze” di due nomi eccellenti dei tempi di Tangentopoli, l’allora democristiano Gianstefano Frigerio e il “compagno G”, l’inossidabile Primo Greganti. Inquieta non solo e non tanto il lungo iter giudiziario del primo, intessuto di condanne, interdizioni, affidamento ai servizi sociali: un esempio palmare della pacifica coesistenza di corruzione e politica nel ventennio berlusconiano. Né turba più di tanto l’improbabile sospetto che allora, forse, la linea difensiva del “compagno G” poteva essere fondata, visto che ha continuato a trafficare per sé, secondo l’accusa. Inquieta soprattutto il ritrovarli sulla scena — e sulla scena della modernità italiana, come negli anni Ottanta — proprio per la loro “professionalità”: non più tramite fra mondi imprenditoriali e mondi politici a loro modo coesi ma in qualche misura agenti in proprio. In relazione continuata e aggravata, appunto, a una selva inestricabile di figure annidate nei settori più diversi e frastagliati dell’imprenditoria e della
politica, della burocrazia e del variegato malaffare del nostro Paese. Annidate, più in generale, in molte sue pieghe.
È l’esito quasi inevitabile di questi vent’anni, la loro degna e indecente sepoltura, e ancora una volta il Paese deve interrogarsi su di sé. Sul proprio assuefarsi, perlomeno, a questo degrado, o sul proprio oscillare fra l’assuefazione e la esasperazione urlata e paga di se stessa. Incapace o refrattaria a riflettere sulla qualità dei corifei cui via via si affida, dal Bossi “celodurista” di un tempo sino al duo Grillo-Casaleggio. Non certo aiutata a farlo, inoltre, da una politica che continua largamente ad ignorare o a sottovalutare gravemente il baratro in cui siamo precipitati. Che ancora non sembra cogliere l’urgenza, ad esempio, di interventi drastici sulle procedure degli appalti per renderle meno esposte a questo verminaio.
Misure esemplari, comprensibili e chiare: questo è doveroso attendersi oggi dal governo, insieme ad altre scelte radicali in questa direzione. Insieme ad un grande scatto di dignità della politica nel suo insieme: un soprassalto di ragione, e la dismissione drastica di quelle logiche di fazione — e talora di fazione interna — in cui spesso si attarda. Altrimenti rischiano di ripiegare anche quelle iniziali inversioni di tendenza, quegli ancor timidi “segnali di vigore” che un recentissimo rapporto del Censis vede affiorare nei settori più diversi della nostra società, dai giovani “pendolari globali” all’imprenditoria femminile o a quella dei migranti. Non dare riferimento, fiducia e speranza ai fermenti di vitalità pur presenti sarebbe davvero il crimine peggiore.

(“La Repubblica” 10 maggio 2014)

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