L’antiretorica di Mario Monti e l’Italia alla ricerca di etica
Massimo D’Alema ha usato una metafora gramsciana, quella dei due eserciti nemici costretti al reciproco assedio. Né vinti né vincitori. Stallo. Si stenterebbe a trovare nella storia d’Italia del dopoguerra una congiuntura politica assimilabile a quella attuale. Governi tecnici, sì, ne abbiamo avuto, ma sempre sostenuti da una più o meno solidale maggioranza parlamentare. Fu così ad esempio nel 1993-94 per Ciampi, chiamato a traghettare la prima nella seconda Repubblica. Niente di ciò può dirsi per Monti. Qui la maggioranza parlamentare (oltre 500 voti) è in realtà spezzata in due tronconi, divisi dal passato ma soprattutto dal futuro, entrambi in trincea in vista di quella che sarà, tra due anni o forse prima, la volata elettorale. Sicché tutti gli elementi del programma, dai più impegnativi a quelli di dettaglio, vanno faticosamente concordati nella difficile diplomazia segreta dei partiti. Nulla passa che non sia preventivamente autorizzato dall’alleato-avversario. Nulla che non rientri in un complesso gioco di compensazioni reciproche.
Si spiega così la complicata gestione parlamentare della manovra di dicembre. Un passo avanti e due indietro: deindicizzazione delle pensioni minime, prima casa fuori dall’Imu per i redditi bassi, ma al tempo stesso cedimenti alle lobbies dei farmacisti e timidezza (eccessiva) verso gli ordini professionali. Tutto si tiene, insomma.
Detto ciò il governo Monti non è privo di risorse. Gode (non sembri paradossale, dopo quello che si è appena detto) di un suo largo spazio di manovra, determinato da due fattori che sfuggono al gioco dei partiti. Il primo è il contesto internazionale della crisi, che predetermina di fatto molte soluzioni specialmente nella politica economica. I binari, insomma sono tracciati, e nessun paese può permettersi il lusso di sfuggirvi. Come ha di recente spiegato a Sassari Giuseppe Pisauro, uno dei più intelligenti studiosi della fiscalità e della spesa pubblica, una soluzione alternativa, diciamo così di stampo post-keynesiano, sarebbe teoricamente praticabile ma solo a patto di trovare corrispondenza nel quadro delle strategie internazionali di governo della crisi. Mancando questo presupposto, qualunque passo in quella direzione è in pratica impossibile.
Il secondo fattore pro-Monti sta nel carattere tipico della emergenza italiana. Il paese è fermo, immobilizzato da decenni dalle cattive e tardive politiche della destra. Soffre di handicap strutturali evidenti: basso tasso di crescita demografica, conseguenze del fardello pensionistico, una finanza pubblica piena di falle, corporativizzazione record dell’economia, Pil che non cresce, un sistema industriale impoverito da anni di mancata manutenzione, specie per quanto riguarda le grandi imprese, che dovrebbero in simili frangenti agire da cavalli da tiro della ripresa. Qui si apre un campo sterminato per un governo libero da condizionamenti elettoralistici e capace di pensare nel medio periodo (lasciamo stare se poi davvero durerà davvero sino al 2013). Monti lo sa, i suoi ministri pure, e mi pare che ne stiano profittando.
I primi passi del nuovo governo incoraggiano a ben sperare. Lasciamo da parte lo stile, che pure ha una sua rilevanza perché produce (quando c’è) credibilità internazionale e nazionale. Guardiamo ai primi atti: il piano per il Mezzogiorno annunciato dal ministro Barca, ad esempio (nel quale la Sardegna dovrebbe interloquire di più: avverto un silenzio catacombale della giunta Cappellacci); i primi, concreti provvedimento per le carceri del ministro Severino; la solida gestione che sembra dare all’Interno la ministra-prefetti Cancellieri; le dichiarazioni non rassegnate di Catricalà sulla lotta alle incrostazioni corporative momentaneamente vincenti a dicembre. Qualcosa di nuovo si muove, insomma, persino (e non è cosa da sottovalutare) nella gestione quotidiana, nelle piccole ma decisive scelte della amministrazione corrente. Competenza, concretezza, antiretorica insomma.
Il Pd, in questo contesto, vive una stagione sperimentale, una sfida difficilissima ma al tempo stesso esaltante. Se sarà o no il partito di governo del dopo-2013 molto dipenderà dai prossimi due anni. Bersani, nel rinunciare ad elezioni sicuramente vittoriose in nome dell’interesse generale, ha compiuto un atto di grandissima responsabilità. Generoso persino sul piano dei suoi propri interessi personali, perché nessuno gli assicura che tra due anni sarà lui il leader della coalizione di centro-sinistra. Ma ora il Pd deve sfuggire alla tenaglia nella quale in molti vorrebbero stritolarlo: responsabile (assai più che non la destra) delle scelte del governo Monti, anche delle più dolorosamente impopolari; e al tempo stesso portatore di istanze più radicali, della difesa dei ceti più deboli che costituiscono il suo elettorato, della insopprimibile domanda di giustizia sociale che proviene dal Paese. E’ una stretta, questa, uno snodo critico, nel quale bisognerà reggere alle irresponsabile demagogie dell’ultra-sinistra (nella cui categoria provvisoriamente va anche conteggiato Di Pietro, come sempre dedito alla propaganda più che alla politica) ma al tempo stesso dimostrare che si è capaci di indirizzare da fuori l’azione governativa, ispirandone scelte il più possibili progressiste. E tutto ciò dopo aver detto e ribadito che il sostegno parlamentare a Monti non verrà a mancare, costi quel che costi.
Paradosso inedito, anche questo. Ma è appunto su questo terreno, fragilissimo e al tempo stesso ambiguo, che si gioca la partita. Il Pd sta dimostrando in queste prime settimane una compattezza del suo gruppo dirigente assolutamente nuova (direi anche inaspettata), che fa ben sperare. Ma la grande crisi, coi suoi effetti più dolorosi, deve ancora produrre i suoi effetti, e non è detto che la diga del consenso interno tenga, che il carisma di Bersani regga sino in fondo.
Si apre dunque una stagione inedita, nella quale bisognerà “parlare” molto di più. Non solo agli iscritti né unicamente agli elettori ma al complesso della società italiana. Lo stato di salute del Pd, nato (è bene non dimenticarlo mai) solo 4 anni fa, è dal punto di vista del radicamento di massa, della costruzione del partito, della sua capacità di “ascoltare” i rumori che provengono dalla società ancora precario. In Sardegna ad esempio, dopo la “svolta” del marzo scorso (quando si ruppe la maggioranza un po’ posticcia che aveva votato Bersani alle primarie interne e si ebbe l’entrata in segreteria della minoranza di allora), molto si è fatto per dare corpo ad una iniziativa unitaria. La conferenza programmatica è servita (più però come sede del dibattito interno agli iscritti che come luogo aperto all’ascolto di altre voci). Lo stato dei circoli presenta ritardi ma anche successi. Tuttavia non si può non vedere una certa arretratezza del dibattito interno rispetto alle sfide posta dalla nuova situazione nazionale. Mancano, in particolare, una analisi nuova della questione sarda nei suoi termini più aggiornati (che non sono più quelli della prima candidatura Soru alla Regione, essendo da allora drasticamente peggiorata la situazione), un discorso sui compiti del riformismo sardo nella crisi, e forse un’idea della cultura nuova che occorre per “leggere” l’attuale fase storica.
Tutto ciò, in Sardegna come in campo nazionale, rimanda ai compiti della politica, e specificamente al ruolo dei partiti. L’ondata di anti-politica che sembra sommergere le stesse istituzioni democratiche (nata dalla critica giustissima delle degenerazioni della cosiddetta “casta” ma oggi dilagante sino a contestare il ruolo stesso delle assemblee elettive) può essere razionalizzata e rivolta a sbocchi positivi solo se i partiti, Pd per primo, tornano ad essere virtuosi. E per virtù non intendo solo la riconquista di una ormai da tempo perduta dimensione etica, ma la capacità di leggere la realtà cogliendone le domande nuove, e di formulare risposte attendibili. Senza di che, duole dirlo, la sintesi che la politica non è più in grado di fare la farà qualcun altro. E non è detto che lo faccia democraticamente.
(“Sardinianews” , n.12 del 2011)