La morte di Emmanuel Chidi Namdi. Noi non siamo questo Paese, serve un antidoto ai veleni
Scampato alla follia islamista di Boko Haram, ammazzato da un razzista nostrano. C’ è tutta la nauseante «modernità» dei nostri giorni nella morte assurda di Emmanuel Chidi Namdi, il giovane nigeriano ucciso a botte nella cittadina marchigiana di Fermo per aver provato a difendere la sua compagna, Chimiary, che qualche squallido imbecille stava insultando in strada, chiamandola «scimmia».
Servisse un monito, per quei politici che pensano di lucrare voti seminando vento e odio tra gli ultimi e i penultimi della nostra società, questo sarebbe il momento di fermarsi a riflettere, perché c’ è sempre qualche idiota che infine trasforma quel vento in tempesta.
Ma non ci sono moniti che bastino, non c’ è orrore che fermi la paura dell’ altro quando questa diventa cieca stupidità, come non è bastata – lo sappiamo – in Inghilterra la morte di Jo Cox a fare arretrare i populisti demagoghi che incassavano qualche consenso in più sulla fobia dei migranti. La piccola terribile storia di Emmanuel e di Chimiary ha risvolti tragicamente paradossali che s’ aggiungono alla banalità del male in una rivoltante sommatoria. I due ragazzi scappavano dal fondamentalismo musulmano. Erano profughi, rifugiati nel seminario arcivescovile di Fermo dal settembre scorso, dopo aver passato le pene dell’ inferno: i terroristi di Boko Haram avevano ucciso la loro figlioletta di due anni, devastato il loro villaggio, assaltato la loro chiesa. Nel cammino della speranza verso l’ Italia, i ragazzi erano stati aggrediti e pestati in Libia. Durante la traversata verso la Sicilia, su uno dei barconi che qualche demagogo nostrano vorrebbe «rimandare a casa» magari con un panino e una bottiglietta d’ acqua, Chimiary aveva avuto un aborto. Sappiamo poco, per adesso, dei loro aggressori nella nostra terra.
Chi ha assassinato Emmanuel, bastonandolo con un palo di ferro, pare sia un tifoso ultrà della squadra di calcio di Fermo. Secondo monsignor Vinicio Albanesi, presidente della fondazione Caritas in Veritate che assiste migranti e profughi nella cittadina, i razzisti che hanno aggredito il ragazzo nigeriano sarebbero dello stesso «giro» che ha piazzato quattro bombe davanti alle chiese cittadine per «punire» la comunità cristiana di quell’ accoglienza insopportabile a chi professa un cristianesimo di spada e identità senza la misericordia di Gesù.
Ci verrebbe da dire che importa poco. Che la storia di Emmanuel e Chimiary travalica la verità giudiziaria, quando mai verrà accertata. Perché questa storia parla, prima ancora che alle nostre coscienze di italiani, alle coscienze della classe dirigente del Paese, di qualsiasi colore politico essa sia. Da quasi dieci anni, da quando in Italia esplose la prima grande emergenza securitaria (a Roma, con la comunità romena), ci sono parti politiche, leader e fazioni che pensano di poter mettere all’ incasso la cambiale della paura.
È una dannata illusione, perché quella cambiale porta solo nuovi debiti, fino alla rovina. Perché c’ è sempre qualcuno pronto a interpretare alla lettera uno scatto polemico, una frase sopra le righe: e troppe sono, nel triste dibattito italico, le frasi fuori misura, gli atteggiamenti gladiatori.
La morte di Emmanuel dovrebbe insegnare a ciascuno moderazione e senso del limite. Descrivere l’ altro come nemico, i migranti come chi ci porta via il pane (è vero il contrario, i migranti pagano le pensioni dei nostri vecchi col loro lavoro), ripetere il mantra «prima gli italiani» (come se qualche razzista si fosse mai interessato agli italiani poveri prima di contrapporli ai migranti), beh, tutto questo è veleno. Emmanuel e la sua storia ci insegnino a riconoscerlo, ci aiutino almeno a trovare un antidoto.
Chimiary ha deciso di donare gli organi: salveranno un italiano.
(Corriere della Sera, 7 luglio 2016)