La destra al governo
di Franco Monaco
Chi sta dalla parte dei vincitori o comunque chi vede il bicchiere mezzo pieno mette l’accento su due elementi apprezzabili: la prima donna premier e il primato della politica. Segnatamente, un governo espressione del risultato delle urne dopo un decennio di esecutivi sostenuti da maggioranze le più diverse originate da intese parlamentari siglate a urne chiuse. Più volte governi tecnici o di unità nazionale.
Un po’ poco, in verità. Rispettivamente: una premier donna di per sé non garantisce una concezione, uno stile e concrete politiche che giovino alle donne; la conformità del governo all’esito delle elezioni è viziato dagli effetti distorsivi prodotti dal combinato disposto di taglio dei parlamentari e legge elettorale.
Una distorsione di tali dimensioni da intaccare il principio di rappresentanza. Lo sappiamo, sia chiaro: non la legittimità del governo, ma una sua adeguata rappresentatività del vasto corpo elettorale. Specie se si considera che ne è sortito un esecutivo decisamente mediocre quanto alla qualità dei suoi membri – l’opposto del declamato “alto profilo” – e marcatamente di destra. In coerenza con l’atto inaugurale della nuova legislatura: l’elezione di presidenti delle due Camere dal profilo decisamente identitario e divisivo. Inadatto ai compiti di equanime garanzia ad essi affidati. Una qualità modesta della squadra di governo, si diceva, che riflette un vistoso deficit di classe dirigente della destra nostrana cui Meloni ha provato, senza successo, a porre parziale rimedio con l’immissione di qualche tecnico nelle postazioni più delicate, incassando puntuali, eloquenti dinieghi.
Si può apprezzare la circostanza che, nella formazione del governo, la premier, forte del suo consenso elettorale, abbia esercitato la leadership, resistendo alle pressioni dei suoi riottosi e pretenziosi partner di coalizione, restii – è un eufemismo – a riconoscerle il rimato. E tuttavia ciò ha contribuito dare corpo a un esecutivo di sua stretta, personale fiducia, insisto, a discapito della qualità: mediocre e decisamente di una destra di cui conosciamo l’ascendenza non rassicurante, nonché ipotecato da conflitti di interesse. Da parte dei media espressione dell’establishment nostrano, sollecito come da tradizione nell’acconciarsi al potere di turno, si è liquidato sbrigativamente il problema delle radici postfasciste di FdI. Quasi fosse un falso problema. A mio avviso, al contrario, trattasi di un nodo reale che non si può eludere con un esorcismo.
Mi spiego. Nessuno si è mai sognato di paventare la riedizione del fascismo nella forma storica che abbiamo conosciuto, e tuttavia a instillare preoccupazione sono non il passato ma il presente e il futuro. Nell’ordine: difficile dare credito alle troppo estemporanee riconversioni alla La Russa che si precipita a professarsi in tutto d’accordo con Liliana Segre (le biografie e le culture pesano); il “fascismo eterno” efficacemente descritto da Umberto Eco, intessuto di autoritarismo, cultura patriarcale, intolleranza, ostilità verso il diverso; le liaison della Meloni con partiti e governi della destra europea dall’ungherese Orban al polacco Morawiecki, da Vox alla Le Pen; le riserve degli osservatori e delle cancellerie straniere, meno immemori di noi, a cominciare dagli storici partner europei di Francia e Germania; da ultimo le sconcertanti e reiterate posizioni filoputiniane dello sregolato Berlusconi. Poco importa se siano filtrate a dispetto o, come è più plausibile, da lui veicolate intenzionalmente. Conta che esse sono palesemente sincere.
Non ci è dato di accennare qui ai più specifici e concreti fronti sui quali si concentrano le nostre preoccupazioni. Solo i titoli: i diritti civili frutto di storiche battaglie e di non facili conquiste insidiati da nomine ministeriali di segno opposto e comunque dal segno culturale di una parte cospicua della compagine di governo; un indirizzo di politica estera ispirato, nel caso della Meloni, a un atlantismo dogmatico ostentato, non accompagnato da un sicuro europeismo; il dichiarato proposito di una riforma in senso presidenziale della Costituzione che, per logica interna, comporterebbe la riscrittura della sua intera architettura; un fisco – sta scritto nel programma elettorale in contrasto logico prima che giuridico con il principio costituzionale della progressività; sul piano ideologico una concezione e una retorica identitaria di stampo etnico-religioso, quella esponenzialmente interpretata dal neopresidente della Camera Fontana.
Sia lecito, in conclusione, suggerire alla sinistra in senso lato due spunti di riflessione. Il primo lo attingo dallo storico Giovanni Orsina: pur con le sue peculiarità, la nostra destra e il suo successo vanno inscritti in un più generale trend che registra la crisi della base ideologica delle forze progressiste imperniata sul binomio globalizzazione-individualismo. Un mondo nel quale precarietà, smarrimento, paura generano una domanda di sicurezza e di protezione. Una domanda disattesa da una sinistra culturalmente subalterna al paradigma neoliberale, mercatista ed elitario, tutta e solo dedita ai diritti civili (individuali?) a discapito dei diritti sociali e del lavoro. Il che comporta una profonda riconversione politico-culturale.
Secondo spunto, questa volta in positivo, che segnala un’opportunità. Se si esamina con cura il dato elettorale, si ricava che ha ragione chi osserva che non vi è stata una “valanga nera”, che il consenso alle destre si è solo redistribuito tra le sue componenti.
La lezione? Che se, dopo avere smaltito le tossine della sconfitta comune (il M5S fa male a considerarsi vincitore!), le opposizioni tutte riprendessero il filo di un rapporto unitario colpevolmente non praticato a monte del voto, la partita si potrà riaprire, che il paese non è condannato al ciclo lungo di una destra senza alternative. Ma bisogna volerlo, dando prova di umiltà, pazienza, intelligenza, etica della responsabilità.
(adista segni nuovi n.38 del 5.11.’22)