Il predone del Nord

di Gad Lerner

Altro che presidente federale “a vita”: ora toccherà al senatur venire espulso dal partito di cui è fondatore, sempre che non provveda egli stesso a autosospendersi. La magistratura ritiene di avere elementi sufficienti per dimostrare che Umberto Bossi era consapevole dell´infedeltà dei rendiconti amministrativi con cui la Lega ha movimentato i 18 milioni di euro incassati dallo Stato nell´agosto 2011.Già da quattro anni, inoltre, gli ignari contribuenti italiani versavano, Bossi consenziente, una “paghetta” mensile di cinquemila euro cadauno ai suoi figli Renzo e Riccardo. Né più né meno un furto, perpetrato da un ministro della Repubblica.
L´ex capo leghista, cui tutto si può rimproverare tranne l´assenza di fiuto, non a caso si era già dimesso da segretario. Fin dal 4 maggio, vigilia della batosta elettorale, si era rinchiuso in un insolito silenzio. Da allora il suo nome è scomparso dal bollettino delle iniziative di partito pubblicato quotidianamente su “La Padania”. Difficilmente tornerà a comparirvi. Fine ingloriosa dell´”Idiota in politica”, che idiota certo non era. Faremmo torto, difatti, all´intelligenza di Bossi, prendendo sul serio la leggenda su cui Maroni ha impostato la rifondazione leghista: Umberto leader integerrimo cui la moglie e i figli avrebbero fatto perdere la testa; o che l´ictus del 2004 avrebbe lasciato alla mercé di un “cerchio magico” profittatore.
Stiamo parlando dell´uomo con cui Berlusconi e Tremonti giocavano di sponda nei più delicati equilibri di governo, concedendogli un potere spropositato. Trattarlo come un deficiente che firma i bilanci senza accorgersene – ieri ci ha provato ancora Flavio Tosi – è un trucco che non funziona più. Superato lo choc, prevedo che il nuovo stato maggiore leghista ne prenderà atto. Del resto, quale può essere la credibilità di questi dirigenti che fino a ieri dichiaravano inconcepibile una Lega senza Bossi, e fino all´altro ieri magnificavano le virtù politiche del figlio destinato alla successione? Mentivano per convenienza e per timore, ben consapevoli del rischio di venire espulsi al minimo cenno di dissenso, o per lo meno di venire emarginati dal palcoscenico redditizio delle adunate di partito.
Fin dagli albori della sua carriera politica Bossi è stato attentissimo a mantenere il controllo della cassa. Non per arricchirsi, ma per comandare. La sua astuzia popolana è sempre stata intrisa di diffidenza. Praticava la tecnica della sottomissione nella cerchia degli adepti e verificava la loro fedeltà facendogli ingoiare il suo dispotismo. Che amasse la vita rustica e sregolata disdegnando il lusso, spiega il suo successo di leader populista ma resta ben fragile attenuante. La disinvoltura con cui attingeva ai finanziamenti di un partito che – incoraggiato da chi gli ruotava intorno – considerava emanazione inscindibile dalla sua persona, spiega l´assoluta indifferenza di Bossi alle regole dello Stato e a ogni norma statutaria. In uno dei suoi ultimi comizi, per giustificare il pagamento con soldi pubblici dell´appartamento romano di Calderoli, disse proprio così: “I soldi sono nostri, se vogliamo possiamo anche buttarli dalla finestra”. È questa la sua idea di onestà, magnificata ieri da Tosi, Boni, Borghezio, Salvini e compagnia.
Piace ricordare ancora che Piergiorgio Stiffoni, l´altro dirigente leghista autosospeso, già membro della tesoreria insieme a Belsito e Castelli, prima di venir sottoposto a indagine per distrazione di fondi pubblici al Senato, si distingueva per le sue odiose sortite razziste contro gli immigrati e gli omosessuali, giunte fino all´evocazione delle camere a gas: un personaggio ben meritevole di cotanto disonore.
Non per banale rivalsa è giusto ricordarlo, ma anche per spiegare la crisi così repentina del movimento leghista cui stiamo assistendo. Deflagrato come questione morale, e senza dimenticare che la spregiudicatezza leghista si acutizza nel corso dell´alleanza ultradecennale col partito di Berlusconi, il declino del Carroccio trae origine dall´anacronismo divenuto all´improvviso evidente della sua offerta politica. È come se d´un colpo l´ampiezza dei fenomeni globali – dalla crisi sprigionatasi nel cuore dell´economia occidentale, alla primavera araba – avesse rivelato l´inadeguatezza culturale del populismo al governo.
Non dimentichiamolo: Bossi è stato un ministro insignificante, prima che un leader arraffone.

(“La Repubblica”, 17 maggio 2012)

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