Politici e statisti
I giornali commentano: “Il premier a Mosca cita De Gasperi e sferza i partiti”. Suscitando qualche critica a denti stretti specie tra chi mal sopporta la “sospensione della politica” e il “commissariamento” del governo dei tecnici e interpreta la citazione come una messa in mora della politique politicienne contrapposta alle virtù della tecnocrazia o addirittura come un insospettabile cedimento alle mode populiste. Gli aforismi però non sempre raccontano la complessità delle cose.
Nella fattispecie, la frase di De Gasperi evoca l’aporia antica che accompagna dagli inizi il dibattito sulla democrazia. Stretta tra l’esigenza di ricercare il consenso dei cittadini per la propria legittimazione e la vocazione a concorrere alla costruzione di una società giusta. A conti fatti, però, l’antitesi non è tra il politico e lo statista (c’è davvero una differenza irriducibile tra i due termini?) ma tra diverse concezioni e diverse pratiche della politica stessa. Che è costitutivamente votata a fornire una garanzia per il futuro e che, su questa base, costruisce la sua obbligazione.
Per anni, nell’epoca della crisi dei partiti di massa, ci siamo sentiti dire che la comunicazione politica ideale era quella marketing oriented. Qualcuno teorizzò che il prodotto di un partito si vende come una saponetta. Ai produttori di ideologie, nel “dare la linea”, sono così subentrati i sondaggisti. Ma la pietra dello scandalo non consiste nell’uso spregiudicato delle tecniche della comunicazione pubblicitaria applicate alla politica quanto invece nel restringersi dell’orizzonte temporale, e dunque delle ambizioni, che muovono le scelte di movimenti e partiti. La politica “mordi e fuggi” che investe le sue risorse migliori nel definire il suo posizionamento tattico. Che genera, rispetto a un passato non troppo remoto, la straordinaria ipertrofia di una comunicazione ridotta a propaganda e raramente capace di muoversi in coerenza con un frame decifrabile e stabile nel tempo. Di fissare un’identità e di indicare una prospettiva.
Ma la politica in questi anni non è stata la sola a pensare e ad agire in una dimensione contratta, short terming. Che, rappresenta, invece, uno dei tratti di fondo della coscienza, del senso comune indotto dalle tendenze strutturali del capitalismo prevalso nel ciclo storico che abbiamo alle spalle: quello del mercato globale, del sistema tecnico planetario e dello spazio estetico mediatizzato. Una logica che, a partire dalla rivendicazione di un radicale soggettivismo, tende a rifiutare programmaticamente l’esistenza di istituzioni in grado di dare stabilità e riconoscibilità all’esistenza, divenuta, come l’insieme della società, “liquida”, per usare un’espressione abusata. Precaria nei suoi assetti e nella condizione esistenziale degli individui che la compongono. Funzionale alla cultura di un sistema che mistifica la percezione della libertà rendendo i comportamenti funzionali alle proprie convenienze e che si abitua a misurare i risultati nel breve termine, poco curante degli effetti che le pulsioni speculative e la capitalizzazione a breve dei risultati possono far ricadere sul dopo.
Letta secondo questo schema, la crisi della politica, il suo restringersi entro gli spazi limitati del qui ed ora, appare come dunque come un aspetto di una crisi più generale del nostro mondo. Una crisi “spirituale”, come afferma qualcuno, riesumando una vecchia e sospetta espressione che, tuttavia, riesce come nessun altra a contrastare l’idea riduttiva che il disagio dei nostri giorni sia figlio soltanto dell’infarto della finanza mondiale e che le terapie per costruire una diversa prospettiva possano schivare la complessità delle cose.
(“Qdr Magazine”, n.73 del 2012)