Il PD e la questione meridionale
di Giovanni Bianco
I venti di bufera dell’estate politica, il recentissimo scandalo abruzzese ed una mai sopita “questione morale”, impongono un’analisi attenta della crisi di credibilità del sistema politico italiano ed, in modo specifico, di quello del mezzogiorno, senza con ciò voler sottovalutare il settentrione.
E’ una “vexata quaestio”, uno dei plessi tematici più preminenti della “questione meridionale”, su cui si soffermarono meridionalisti di prim’ordine: quella della formazione della classe politica e della classe dirigente e della gestione del potere politico-amministrativo nelle regioni meridionali.
Un tema del passato ma attuale, che riguarda il notabilato e l’aristocrazia post-unitaria, la conservatrice ed, a suo modo, clientelare classe dirigente liberale del sud; il regime fascista, che rafforzò i ceti possidenti e guadagnò consenso anche per l’incultura delle masse; il nuovo “partito-Stato” che fu la D.C., con alcune correnti (specie quella andreottiana) conniventi con il malaffare e la mafia e sempre appoggiato da settori consistenti di un clero in taluni frangenti sonnolento e poco incisivo nella critica sociale e politica, anche utilizzato come “pedina” del clientelismo democristiano.
Lo storico Craveri ha scritto che l’argomento della “questione meridionale” deve essere posto nell’odierno contesto sovranazionale, contrassegnato dalla lenta integrazione europea e dalla globalizzazione.
Il che è indiscutibile, attualmente, ad esempio, le interdipendenze economiche globali non consentono analisi e diagnosi per rigidi compartimenti stagno.
Purtuttavia, la specificità della questione in considerazione resta intatta, sia pure dovendola aggiornare.
E quest’ultima concerne un sistema politico ancora intriso di reti di connivenze, di cooptazioni e di clientelismi che molto poco hanno a che fare con la competizione democratica e la trasparenza; ed un sistema economico tuttora connotato da mere tattiche di sussistenza, da un settore agricolo poco produttivo, dal commercio spesso strozzato dal ricatto mafioso e dal “pizzo”, da un’industrializzazione molto enfatizzata, che stenta a decollare.
Dinanzi ad ogni grave scandalo si riscopre la non eccelsa realtà dei fatti.
Siffatto problema ha sollevato Emanuele Macaluso, dalle colonne de “La Stampa”, con toni fondatamente molto critici proprio con riguardo alla classe dirigente meridionale.
Il nuovo quadro politico non ha determinato effetti innovativi rilevanti.
La “fusione fredda”, che ha costituito l’atto di nascita del P.D., in diverse regioni del sud, ed il pensiero corre, anzitutto,alla situazione siciliana ed a quella calabrese,ha sovente significato soltanto nuove preoccupazioni per la divisione di quote di potere, entrata nei quadri del partito di spezzoni del passato e controverso apparato dirigenziale democristiano, poca e tenue presenza sul territorio, scarsa mobilitazione e critica sociale.
Quindi, la preoccupazione per gli equilibri di maggioranza, per la mera gestione di una comunità montana, di un’asl o di un comune, ha prevalso su una dimensione di seria progettualità politica di lungo periodo.
Amministrare significa, secondo questa direttrice, gestire l’esistente, guadagnare consenso con cinismo, evitare accuratamente di pestare i piedi ai poteri forti.
Quel che più risalta è l’immagine di un partito che finora poteva e doveva fare di più nel proporre politiche realmente alternative alle pessime amministrazioni del centro-destra, nel contrastare effettivamente il clientelismo deteriore ed invasivo delle forze avversarie.
Il successo di Lombardo e quello antecedente di Totò Cuffaro, ad esempio, non sono casuali ed episodici. Essi costituiscono il prodotto di una capillare e devastante presenza sul territorio di metodi spregiudicati, dotati di una forza d’urto che si avvale di solide leve, ben collocate sul terreno della società civile meridionale.
Così come gli scandali che hanno colpito il P.D., ad esempio in Calabria ed in Abruzzo, non sono tessuti incancreniti che spuntano dal nulla. Rappresentano, viceversa, l’esito di una cattiva gestione delle stanze dei bottoni degli enti esponenziali locali, che in determinate circostanze è differita, purtroppo, di poco, volendo usare un eufemismo, da quella del P.D.L.
Non a caso si parla, infatti, di sperpero di fondi pubblici, di tangenti e malasanità, di piani regolatori addomesticati ecc.
Che cos’è, dunque, il P.D. nel mezzogiorno? Come ha funzionato la fusione tra i D.S. non sempre propositivi ed una “Margherita” che, più che un partito,era un’accozzaglia di “circoli” che in diversi casi riproponeva, sotto nuove vesti, le penose faide interne della vecchia D.C.?
Ed a livello nazionale esiste una chiara ed adeguata percezione dei fenomeni accennati o si resta nel vago?
Lo scenario impone interventi tempestivi, anche con il bisturi, su alcuni quadri dirigenti locali del P.D., partito che nelle aree territoriali menzionate si pone più, come già scrissi tempo addietro, quale una forza di centro che di sinistra, più come un soggetto politico moderato o, addirittura, conservatore che progressista.
Ciò non vuol dire, ovviamente, che non vi siano presenze positive ed intelligenti, amministrazioni di centro-sinistra apprezzate e trasparenti, ma è latitante una strategia politica complessiva, forte e progettuale.
Riprendere oggigiorno la spinosa “questione meridionale” significa, di conseguenza, riporre in primo piano due altre questioni mai risolte e sempre riemergenti, quella democratica e quella morale.
Esse, inoltre, non possono essere scisse dal problema dello sviluppo economico equilibrato e solidale. E sono il portato della permanenza al vertice di oligarchie, anche influenzate da comitati d’affari.
E’ il persistere della deprecata mentalità “gattopardesca”, che mai è stata estirpata e sempre, con rinnovato e perverso vigore, tarpa le ali alle speranze in un mezzogiorno pluralista e democratico.