Il divorzio tra Grillo e Conte
di Franco Monaco
Dunque, è deflagrato il conflitto tra Grillo e Conte. Scontro politico, non personale. In gioco il profilo e il destino del M5S. L’equivalente di un congresso che, considerata la natura del movimento, mai si è fatto né mai si sarebbe potuto fare. Si pensi solo al nulla di fatto dei suoi cosiddetti “stati generali”, cui incredibilmente Grillo ritorna con la sua delirante “retropia”, rimettendosi nelle mani del giovane Casaleggio con il quale aveva rotto traumaticamente solo un paio di mesi fa.
Sarebbe disonesto non riconoscere che il M5S non abbia conosciuto una profonda evoluzione: da movimento protestatario a forza di governo, da euroscettico a europeista, da soggetto velleitariamente autosufficiente a soggetto disponibile (anche troppo, indifferentemente) a stringere alleanze con altri partiti. Conte incarna tale evoluzione. Complessivamente un processo di maturazione imperniato su tre elementi: cultura di governo, politica delle alleanze, scelta di campo. Regredire ai moduli dello stato nascente, prima ancora che sbagliato, mi sembra impossibile. Anche perché la fase è cambiata e, con essa, lo spirito del tempo. Se il M5S volesse avere un futuro – certo ancora da definire politicamente – non avrebbe alternativa a quella di affidarsi a Conte e al capitale di consenso da lui accumulato. Del resto, fu lo stesso Grillo a bussare alla sua porta pregandolo di assumere la guida del Movimento e di aprire una nuova stagione (persino rifondazione, si è detto). Salvo poi, con un soprassalto di paternalismo proprietario, sfasciare tutto.
Francamente non mi sorprende che, alla stretta decisiva, il nodo irrisolto, il più intricato, si sia rivelato quello della democrazia interna. Ho sempre pensato che il metodo democratico prescritto ai partiti dall’art. 49 della Costituzione non sia mero “affare interno” a essi, ma decisivo requisito con effetti sistemici per la nostra democrazia. Altro che “non statuto”. Proprio lo statuto e la “forma-partito” sono stati il casus belli. Come si vede, hic rhodus, hic salta. Sono legioni coloro che assistono con malcelato compiacimento alle convulsioni del M5S tifando per la sua definitiva dissoluzione. Ed effettivamente si comprende la tentazione: troppe le contraddizioni, le smentite, gli opportunismi del M5S. Sino a concludere che si sarebbero meritati un inglorioso tramonto. Ma sarebbe un errore. Per più ragioni: il loro exploit elettorale (lo votò un italiano su tre nel 2018) non fu senza ragioni e comunque il M5S parlamentarizzò umori, sentimenti e risentimenti che altrove, in Europa e negli Usa, hanno gonfiato le vele a formazioni estremiste ben più inquietanti; la scomparsa del M5S o del “partito di Conte” aprirebbe un’autostrada a una destra già largamente favorita e senza più competitor. Sarà utile segnalare ai tanti che, ai piani alti, gradirebbero “eternizzare” soluzioni tecnocratiche alla Draghi sospensive della fisiologica dialettica democratica che – mi si perdoni se segnalo il fastidioso dettaglio –, prima o poi, si dovrà pure votare. Persino il moderato Letta, con realismo, ha investito sull’asse con il M5S versione Conte e, sin dal suo esordio, ha apprezzabilmente assicurato che il PD aspira sì al governo, ma, finalmente, dopo avere vinto elezioni. Una tantum non grazie ad alchimie parlamentari. Levandosi di dosso la nomea di “partito governista” e dell’establishment che sempre fa appello all’argomento peloso dal sapore veterodemocristiano della “condanna a governare” per superiore senso di responsabilità. Una condanna – notava Martinazzoli con autoironia – che la Dc si autoinfliggeva volentieri. Quali chance avrebbe un PD senza alleati di qualche peso inchiodato al suo 18%? Dopo lo strappo, sarebbe bene che Conte, Letta e Bersani pensino a un nuovo, grande cantiere.
(adista notizie , n.26 del 10 luglio 2021)