Eugenio Scalfari. L’Espresso e quello scoop sul golpe de Lorenzo
di Massimo Riva
Quella di Eugenio Scalfari alla guida de l’Espresso è molto di più di una storia di felici innovazioni editoriali e di brillanti intuizioni giornalistiche che getteranno poi il seme fecondo da cui è nata Repubblica. È la storia di una vocazione professionale che, settimana dopo settimana, si trasforma in impegno civile e politico a difesa dei valori costitutivi di una moderna società democratica. Per cogliere il senso e la portata del contributo che quell’Espresso diede al processo di evoluzione della vita nazionale si potrebbe elencare un numero straordinario di articoli e di fulminanti copertine. Ma c’è, sopra ogni altra, una vicenda in grado di illuminare peso e ruolo che l’azione di Scalfari, attraverso l’Espresso, seppe esercitare nell’Italia degli anni cinquanta e sessanta: lo smascheramento del tentativo di colpo di Stato tramato dal generale de Lorenzo sotto l’ala protettrice dell’allora Presidente della Repubblica, Antonio Segni.
Ai non pochi che magari traggono dal marasma populista di oggi motivo per rimpiangere i buoni costumi di un tempo occorre ricordare meglio quale fosse l’Italia di oltre mezzo secolo fa: un Paese fortemente diviso. Da una parte, pochi politici lungimiranti in lotta per il superamento dell’anatema atlantico verso i partiti della sinistra. Dall’altra parte, un agguerrito complesso di poteri e di interessi coalizzati che spaziava dalle correnti più clerical-conservatrici della Democrazia cristiana alla Confindustria fino agli apparati statali – e segnatamente ai corpi militari- nei quali la vena autoritaria introdotta dal fascismo aveva lasciato eredità cospicue.
Il tutto seguito e commentato da una stampa quotidiana che, fatta salva l’eccezione dei giornali dei partiti di sinistra, aveva perso gli entusiasmi professionali dei primi anni del dopoguerra per adagiarsi in un conformismo piatto e noiosissimo di sostanziale, talora connivente, supporto al potere dominante. Insomma, un panorama grigio cupo nel quale la penna di Eugenio Scalfari irrompe creando lo stesso scompiglio del fatidico garibaldino in convento, così riaprendo la strada a un risveglio delle migliori qualità del giornalismo nazionale che non sarà più facile reprimere.Si deve partire dal luglio 1964, quando l’accidentato cammino di quella che veniva allora chiamata l’apertura a sinistra giunge a un passaggio decisivo: l’ingresso a pieno titolo del partito socialista di Pietro Nenni nel governo con la Dc. Le trattative procedono con estrema lentezza e fatica fino al giorno in cui il segretario del Psi ritira improvvisamente le sue richieste più osteggiate e accetta un accordo al ribasso. Chi o che cosa ha spinto Nenni a questa marcia indietro? L’Espresso è il primo a chiederselo e sarà anche il primo a trovare la risposta anche se impiegherà quasi tre anni per venire a capo di questi interrogativi.
Anni di ricerche tenaci, costanti, ostinate che alla fine porteranno alla luce una delle pagine più oscure e drammatiche della vita repubblicana. Nell’immaginario collettivo l’inchiesta giornalistica più conosciuta e celebrata al mondo è quella del Washington Post sul caso Watergate, avvenuta anni dopo e in un paese che ha antiche e solide tradizioni di stampa libera e indipendente. Nell’Italia degli anni Sessanta il clima in materia è assai meno favorevole. Chi sa non parla o fa solo vaghi riferimenti al «tintinnar di sciabole», nulla dicono gli stessi politici al centro della vicenda, figuriamoci gli uomini del mondo militare. Ma Scalfari e l’Espresso non si rassegnano e scavano fra inutili mezze ammissioni e altrettanti tentativi di depistaggio.
Finalmente a gennaio del 1967 l’Espresso individua un primo filone d’inchiesta e pubblica un articolo in cui si denuncia che il Sifar (ovvero i servizi segreti militari) guidato dal generale de Lorenzo ha realizzato oltre 150mila schedature di italiani ritenuti politicamente “pericolosi”. Uno di questi dossier è dedicato niente meno che a Giuseppe Saragat, divenuto nel frattempo presidente della Repubblica. Lo sconcerto è enorme e i vari muri del silenzio cominciano a cedere. Con la collaborazione di Lino Jannuzzi, Eugenio Scalfari inizia a raccogliere testimonianze più compiute che lo porteranno molto oltre la denuncia delle deviazioni del Sifar.Sempre settimana dopo settimana, l’Espresso arriva a strappare il velo del cosiddetto “Piano Solo”. Un ben congegnato progetto di occupazione “manu militari” delle istituzioni, concepito minuziosamente dal generale de Lorenzo con tanto di campi di concentramento nei quali rinchiudere gli oppositori politici per dar luogo a un governo d’emergenza insediato dal presidente Segni. Le reazioni nel paese sono dapprima orientate all’incredulità, la stampa cosiddetta più autorevole fa muro e il seguitissimo Corriere della Sera parla sprezzante di «farneticazioni» da parte dell’Espresso. Ma ormai la breccia della verità si è aperta e nessuno sarà più in grado di richiuderla.
Ci prova lo stesso de Lorenzo con una querela contro Scalfari e Jannuzzi che una magistratura compiacente avallerà con una condanna. Alla quale però i due giornalisti avranno modo di sottrarsi facendosi eleggere in Parlamento e mettendosi così al riparo di quell’immunità che in casi come questo può davvero definirsi istituto benedetto contro l’arroganza del potere dominante. Ora la penna del garibaldino non scrive più, ma la lezione per il convento del giornalismo rimane intatta e vitale.
(repubblica.it , 14 luglio 2022)