Cattolici e referendum

di Franco Monaco

Se Dio vuole, ci siamo messi dietro le spalle il referendum costituzionale che ha diviso il paese, il centrosinistra, il PD, le famiglie. E anche il mondo cattolico. Per un verso, lo si può considerare normale: è nella natura duale del referendum ed è giusto che da una comune ispirazione cristiana possano sortire diverse opzioni pratiche, come nel caso dei modelli istituzionali. Sta scritto chiaramente nella enciclica sociale “Centesimus Annus”: la Chiesa non si lega ad alcun modello istituzionale. Ferma restando la propria contrarietà ai regimi che manifestamente violino la dignità e la libertà della persona.

Sul punto ho avuto modo di esprimere il mio amichevole dissenso da Raniero La Valle che si è battuto per il no “in quanto cattolico”. Ciò detto, non va però sottaciuta la circostanza che, non fosse altro che per ragioni storiche legate al decisivo, qualificante contributo dei costituenti di parte cattolica alla elaborazione della nostra Carta fondamentale, i cattolici italiani, pur di diverso orientamento, hanno sempre coltivato uno speciale attaccamento ad essa. Riconoscendovi il segno di una ispirazione personalistico-comunitaria e dunque vitalmente cristiana.

Merita chiedersi il perché della divisione che si è prodotta. Dal mio punto di vista, dichiaratamente di parte (mi sono speso per il no), sorprendente è stata la circostanza che una parte cospicua e forse maggioritaria dell’universo cattolico si sia schierata per il sì, nonostante che i più autorevoli costituzionalisti di parte cattolica che ci sono stati maestri (Casavola, Onida, De Siervo, Flick, Mirabelli, Zaccaria….) si fossero espressi in senso contrario. Di Leopoldo Elia che già ci aveva lasciato naturalmente non possiamo dire. Posso solo testimoniare che la moglie Paola, figlia del suo maestro Esposito, poco prima della morte, mi confidò la sua angoscia e la convinzione che il marito si sarebbe energicamente battuto contro la riforma. La stessa convinzione mi è stata manifestata dalla figlia Federica. Così pure non possiamo spendere il nome di Dossetti, ma mi sembrano eloquenti i suoi interventi tra il 1994 e il 1995 la cui nota dominate sta nel rafforzamento di contrappesi e garanzie riconducibili al profilo liberale del costituzionalismo dopo l’introduzione della legge elettorale maggioritaria. Inoltre, disponiamo della testimonianza-documento del dossettiano don Giovanni Nicolini che si è detto certo del contrasto della riforma con il lascito del monaco-costituente. Mi sono interrogato sulle ragioni di tale scostamento di settori del mondo cattolico. Ne accenno cinque.

In primo luogo, un certo approccio idealista, tipicamente cattolico, associato a un deficit di cultura istituzionale. La circostanza che non si sia posto mano alla prima parte della Costituzione, ove sono scolpiti principi e diritti, ha come oscurato la percezione del nesso intimo tra le due parti di essa. La riforma, dichiaratamente ispirata al mito della democrazia decidente, di sicuro non andava nella direzione della valorizzazione della partecipazione, delle autonomie sociali e territoriali, dei corpi intermedi. Della sussidiarietà orizzontale e verticale. Sorprendentemente quel nesso è sfuggito alle stesse organizzazioni del “sociale bianco” (Cisl e Acli) storicamente sensibili a tali istanze autonomistiche, ma oggi piuttosto dimentiche di quel loro retaggio. Forse anche perché si è oscurata la loro ragione sociale e, su di essa, fa premio l’apparato dei servizi sussidiato dallo Stato, tipo i patronati. Da quel mondo, solitaria e inascoltata, si è levata la voce critica di Pier Carniti.

In secondo luogo, un certo endemico irenismo, un moderatismo in senso lato filogovernativo. Incline più al sì che al no. Alla ipostatizzazione del sì. Refrattario al conflitto. Quasi che il sì stia per definizione dalla parte della virtù. Semmai incline a un pragmatismo, a mio avviso, improprio trattandosi della Costituzione. Quello del “meglio qualcosa che niente”, “la riforma non è perfetta ma rappresenta un primo passo”, “poi la si potrà correggere”…. Persino Romano Prodi, con la sua metafora contadina, “meglio succhiare l’osso del bastone” è sembrato sposare quella logica minore (il suo sì critico è stato corredato da giudizi quali: riforma “modesta”, in deficit di “chiarezza e profondità”). Buon senso, intendiamoci, ma che forse sottostima la specialissima rilevanza dell’oggetto e comunque dall’orizzonte angusto.

In terzo luogo, appunto, il difetto di quella “coscienza costituzionale” tanto cara a Dossetti. Cioè la consapevolezza del senso/valore della Legge fondamentale che presiede alla vita della casa comune. Una idea alta e pregnante di Costituzione che forse avrebbe consigliato – anche a chi non avesse padroneggiato il merito (complesso) della riforma e, oso dire, perfino a chi l’avesse apprezzata – di non avallarne il varo da parte di una ristretta, contingente maggioranza. Dopo che fu approvata da un parlamento icasticamente diviso a metà, con i banchi vuoti di mezzo emiciclo. Nonostante tutti (a cominciare dal PD, nella cui Carta fondativa è scolpito a chiare lettere un solenne impegno) avessero giurato che mai più si sarebbe ripetuto l’errore di riforme costituzionali a colpi di maggioranza di governo. Mettendo a verbale l’ennesimo, insidiosissimo precedente (possiamo escludere, per un domani anche ravvicinato, che una maggioranza illiberale, invocando il precedente, si riscriva la Costituzione a modo suo?). Eppure il vecchio Dossetti suggeriva alle stesse comunità cristiane di coltivare e promuovere l’etica costituzionale umano-universale, specie quando – è una sua colorita espressione – “la morale cristiana fa cilecca”. Un impegno evidentemente trascurato.

Qui forse – quarto elemento – si sconta lo smodato e invasivo interventismo ecclesiastico di ieri in nome dei cosiddetti “principi non negoziabili”. Dal troppo al niente. Neppure la sollecitazione a prendere sul serio la riscrittura della Carta fondamentale, a domandarsi se oltre l’enfasi posta sulla efficienza delle istituzioni non fossero in gioco altri valori che quelle istituzioni sono chiamate a presidiare. Sul punto meriterebbe rileggere un importante discorso alla città del cardinale Martini per la festività di Sant’Ambrogio sul valore del consenso largo intorno ai principi e al metodo democratico-costituzionale. Un discorso, lo rammento, concepito in sottile polemica con due fronti: con la pretesa ecclesiastica di inscrivere forzosamente nelle leggi civili principi non negoziabili non mediati politicamente; e con gli strappi della stagione berlusconiana, contrassegnata dalla sua refrattarietà alle regole e alle istituzioni di controllo e di garanzia. Si potrebbe dire: un discorso di stampo liberal-democratico.

Infine, pesa un problema connesso alla qualità del personale politico di estrazione cattolica in senso lato. Quello genuinamente cattolico-democratico è sostanzialmente estinto. Anche dentro il PD residuano ex Dc (più che cattolici democratici) e una pattuglia di cattolici liberali che hanno fatto del maggioritario una sorta di religione e che, in nome di esso e di una politica centripeta che converge al centro, sembra abbiano smarrito la tensione egualitaria e critica verso l’establishment e gli interessi forti. Alludo a quanti propugnavano che il PD, nel 2013, facesse addirittura dell’ “agenda Monti” (oggi demonizzato da Renzi) il proprio programma elettorale. Dunque su posizioni da centro moderato o tecnocratico confinante con la destra liberale. Con un deficit di sensibilità sociale che, pur se in forma temperata, contrassegnava la stessa sinistra Dc e, ancor più, la sinistra sociale cattolica.

Sarebbe interessante scavare nelle radici culturali della subalternità al paradigma neo liberale della generazione fucina degli anni ottanta, che orecchiava certe correnti di pensiero luhmanniano di stampo funzionalista (Niklas Luhmann, sociologo e filosofo tedesco, teorico dei sistemi sociali). Personalmente rammento la diffidenza verso quegli schemi culturali da parte di Giuseppe Lazzati che pure seguiva con paterno affetto i giovani fucini.

(www.c3dem.it , 8 dicembre 2016)

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