Berlusconi e Gheddafi. Il carisma grottesto
CAMBIA spesso idea B., anche più volte al giorno, secondo gl’impulsi. Non ha l’aria del pensatore: il suo forte sta nei riflessi innescati da appetiti senza fondo; l’età li affievolisce (i riflessi, non l’appetito) ma restano aspetti temibili d’animale potente (caimano nella varietà “crocolidus ridens”). Era atto impulsivo la telefonata alla questura i cui sèguiti gli costano cari. In politica estera e presumibili affari occulti coltiva liaisons dangereuses (bel titolo d’un articolo d’A.Stille, qui, 25 febbraio).
Lo sapevamo intimo del colonnello Gheddafi, tanto da compromettersi quando costui ordina il fuoco sui dissidenti: “Non volevo disturbarlo”; sotto pressioni europee e Usa, biasima i modi violenti ma ventila pericoli se gl’insorti prevalessero.
L’argomento va studiato perché emergono affinità personali, nella profonda diversità dei sistemi, efferata dittatura e Stato democratico. Sono ricchi da scoppiare, sulla pelle dei rispettivi sudditi, l’africano forse più del milanese, i cui ventimila milioni d’euro vantati illo tempore nessuno sa quanti siano ora, tanto invisibile è la mappa degl’investimenti nel groviglio societario tra le mura o fuori. In regime autocratico gli affari vengono facili: e lì stava meglio il colonnello, padrone effettivo del Paese; Re Lanterna aspira al dominio pieno ma tribola nelle ultime pastoie del rispettabile ordinamento che vuol seppellire. Ogni tanto ringhia d’avere poco potere: adopera governo e Camere come chi, pagando un personale domestico, lo esiga pronto ai comandi; detesta i tribunali perché non hanno padrone, e siccome la Carta impone dei limiti, vuol rifarsela. Entrambi usano mercenari. Il libico ingaggia sgherri che incutano paura, bastonino, sparino. L’italiano compra animule vagabonde: s’era allevato “un popolo” nell’ipnosi televisiva; scelti secondo modelli servili, gli adepti ubbidiscono senza battere ciglio; tolto lui, al quale devono tanto o addirittura tutto, chi li degnerebbe? Non che lo seguano all’inferno, se vi è destinato: al penultimo passo salteranno dal carro ma fino ad allora sarà una gara rissosa; le corti berlusconiane ricordano l’Opera da tre soldi più che Versailles narrata da Saint-Simon, dove eleganze formali temperano mutui odi.
L’analisi clinica coglie aspetti comuni: sono megalomani, narcisi, refrattari alla vergogna, sopraffattori, insensibili al ridicolo; il meno perdonabile è l’italiano, in conflitto stridente con modelli estetico-morali ancora normativi, sebbene trent’anni d’una sguaiata diseducazione quotidiana li abbiano affiochiti. Mantengono degli harem. Tra i due l’autorevole era l’ombroso beduino, forse perché più ricco, seduto sui pozzi petroliferi ed egualmente abile nel moltiplicare i soldi. Ricevendolo qui, mancava poco che l’italiano s’inginocchiasse: l’abbiamo visto baciargli l’anello; inscenava caroselli; offriva i parchi affinché l’altro vi piantasse le tende, né l’ospite lesinava gesti d’un simbolismo provocatorio (ad esempio, indottrinare nel suo catechismo duecento figliole pagate a giornata). Due monarchi dal carisma grottesco, simili anche nell’arnese verbale, quando invertono il senso delle parole. L’impennacchiato dittatore definisce “farsa” l’insurrezione sotto cui barcolla: degl’invidiosi ordivano incantesimi; al Qaeda guida la rivolta; gl’insorti sono drogati; Bin Laden inquina l’acqua e lo yogurt. In retorica altrettanto colta, Dominus Berlusco telefona ai promotori della libertà, istruiti dall’amazzone ministra Michela Vittoria Brambilla: eventi d’alta tensione mistica; i fedeli ascoltano guardando l’icona (una gigantografia anni Settanta); dei notabili annuiscono; qualcuno simula l’estasi; e Lui racconta come siano “farsa” i processi che gl’intentano eversori in toga cospiranti al colpo di Stato, mentre la Consulta complice, infetta d’ideologia sinistroide, “abroga” leggi virtuose; nomenclatura rudimentale (pardon, “rudi-” è quasi un calembour) ma i devoti bevono. È documento antropologico il film d’un sabba milanese in corso Porta Vittoria contro chiunque osi toccarlo. Tutt’e due vogliono essere amati. G. minaccia lo sterminio, nel senso fisico, e l’attua, dichiarando immeritevole della vita chi non l’ama. L’immagine arriva sugli schermi venerdì 25 febbraio. Poi appare l’Olonese, applaudito dagli ufficiali carabinieri nell’aula magna: sarebbe uno dei loro, confida, se i casi della vita non l’avessero condotto altrove; nella recita seguente sorride a piene ganasce richiamando i temi d’un pericoloso processo (buonumore esorcistico); restano dubbi su chi sia il migliore possibile premier? L’indomani in tre uscite pubbliche volta le spalle al cugino perdente, condanna l’insegnamento pubblico, difende i buoni costumi. Infine, invita tutti al rito sessuale libico: niente d’hard, beninteso; “ballare, ridere, bere qualcosa”; erompono ilari correnti d’empatia; gl’intenditori non stanno nella pelle.
Veniamo all’aspetto più allarmante: nessuno dei due contempla l’idea d’andarsene, sebbene in politica sia evento naturalissimo; Agostino Depretis va e viene otto volte in undici anni; Giolitti s’è dimesso cinque volte spontaneamente, ma erano statisti, ossia servitori dello Stato, mentre l’affarista barzellettiere lo occupa piantandovi le tende, come Gheddafi a Villa Pamphilj. Naturale che difendano l’insegna autocratica. Se qualcuno domanda chi sia più rimovibile, rispondiamo: Sua Maestà beduina; l’ambrosiano ha invaso Palazzo Chigi sull’onda delle sue televisioni perché doveva salvarsi; va gonfiandosi ogni giorno e non può desistere; attore d’un barbaro sacco, deve continuarlo o rendere i conti. Non esistono precedenti italiani d’una simile coazione a regnare. Sfiduciato dal Gran Consiglio domenica notte 25 luglio 1943, dopo vent’anni, otto mesi, ventisei giorni, Mussolini restituisce mansueto i poteri al re, che l’ha proditoriamente arrestato nell’allora Villa Savoia: dipendesse da lui, non vi sarebbe la commedia macabra repubblichina; Hitler è deluso, vistolo così remissivo, e gli squadristi schiumano. Uomo politico, capiva che il ciclo fosse chiuso. L’attuale successore ha idee banditesche della res publica. Qui finiscono le similitudini. Gheddafi massacra i rivoltosi. L’omologo italiano non torce un capello ai dissidenti: siamo in Italia e l’Italia è ancora Europa, ma la difesa del bottino configura una patologia su cui c’è poco da ridere; converrà definirla.
(“La Repubblica”, 6 marzo 2011)