Un cattolico a modo suo
di Giovanni Bianco
“Un cattolico a modo suo” è il testamento spirituale che ci ha lasciato Pietro Scoppola. Ma è anche qualcosa di più e di diverso: come scrive Giuseppe Tognon nella premessa si tratta di “un libro novecentesco, problematico e folgorante”, un libro di un uomo “convinto che il prepararsi a morire non dovesse essere un esercizio privato, ma l’occasione di fare i conti con sè stessi”(p.6); “non è un libro di memorie, non è l’ultima lezione di un professore universitario e nemmeno l’appello finale di un grande intellettuale”, “ha il gusto della verità misto a rimpianto per la vita che sta terminando, ma è anche il programma per una generazione che verrà”.
Dunque, un testo semplice ed al contempo impegnativo, che si chiude in modo “aperto”, con “pensieri aperti”, che indicano la ricerca intellettuale inevitabilmente incompiuta sui temi più ardui del vivere e del conoscere.
Quindi la lettura è per forza di cose necessariamente coinvolgente.
Nel leggerlo ho ripensato alle volte che mi è capitato di incontrare Scoppola, anche talora dissentendo dalle sue posizioni (come, ad esempio, accadde in una lontana assemblea federale della f.u.c.i. del 1988), ma sempre considerandolo un maestro di democrazia e di laicità.
Il testo mi ha riproposto l’immagine del fine storico, rigoroso nelle analisi e capace di guardare avanti, di superare qualsiasi atteggiamento conservatore e passatista.
Questo emerge sin dalle prime battute, quando si ammette con non comune onestà intellettuale che la fede granitica che gli avevano insegnato i gesuiti in epoca fascista (simile ad “un ponte a tre arcate”, “Dio”, “Cristo, “Chiesa”) crolla ben presto, tuttavia la fede resta, pur se dubbiosa. Se l’esistenza di Dio non è provabile (“poteva davvero la ragione umana giungere a delle certezze sul piano delle realtà metafisiche?” “…sentii molto la sfida di Kant a tutto l’edificio”(p.27), tuttavia rimane vivo il bisogno di scommettere su di essa, anche riprendendo Pascal.
Il che include il dubitare: “i dubbi sono rimasti e sono diventati parte del mio stesso modo di credere” camminando su un “terreno impervio”(p.30).
Siffatto atteggiamento si riflette sulla scelta di diventare uno “studioso di storia” (qualifica che Scoppola preferiva a quella di “storico”). La storia è, infatti, intesa “come ricerca d’identità”: “l’intuizione che nella storia fossero da cercare elementi nuovi di identità e di orientamento, anche sui problemi del presente, è diventata ricerca storica propriamente detta…”(p.33).
Ricerca che spinse, anzitutto, l’acuto uomo di cultura a “veder affermata la necessità di un superamento, dall’interno della teologia cattolica, della frattura storica fra Chiesa e libertà”(p.37), “la libertà era il passaggio obbligato per quella ricerca di identità di cui dicevo all’inizio”.
Argomento quest’ultimo che indusse Scoppola ad approfondire “il rapporto della Chiesa con la libertà da un lato e con la democrazia dall’altro”, anche con spiccato senso critico nell’inquadramento dei rapporti tra “Chiesa istituzione” e regime fascista (mi riferisco al volume “Chiesa e fascismo”, estratto del più ampio libro su “Chiesa e Stato nella storia d’Italia”); e poi pure nello studio delle origini della Democrazia cristiana e della strategia politica di De Gasperi.
Uno studioso, perciò, che ha creduto nell’autonomia della coscienza e di giudizio e che assunse una coraggiosa posizione di dissenso, rispetto a quella della Chiesa e della maggioranza del mondo cattolico, in occasione del referendum sul divorzio, anche con “costi personali” e “costi ecclesiali”, che poi gli valse la nota definizione di Paolo VI, “un cattolico a modo suo”, in occasione della preparazione del convegno della C.E.I., del 1975, su “Evangelizzazione e promozione umana”.
Tale atteggiamento laico ha costantemente permeato l’impegno politico di Pietro Scoppola: “il cristianesimo è stato il lievito della storia, ma la politica ha una sua laicità che non può essere travolta dalla visione totalizzante dei fini”(p.48); “la politica mi ha appassionato, non strumentalmente come mezzo per un fine diverso dalla politica stessa, ma come politica in sè, come disegno per il futuro, come valutazione razionale del possibile e come sofferenza per l’impossibile, come chiamata ideale dei cittadini a nuovi traguardi, come aspirazione a un’eguaglianza irrealizzabile che è tuttavia il tormento della storia umana”(p.47-48).
Impegno politico che costituisce il portato di un’identità di cristiano e di cattolico connotata da due fattori, “il senso forte della soggettività” ed “il senso della comunità”.
Il discorso scoppoliano investe necessariamente il ruolo della Chiesa, con vibrante e condivisibile senso critico.
“C’è qualcosa nella Chiesa che deve morire. Un modo di intendere l’autorità deve morire, deve essere superato…E parlo qui della Chiesa gerarchica, della Chiesa del Papa, del Vaticano”. (p.63)
E ancora: “da quanto abbiamo detto emerge un’esigenza che è conclusiva, ma che è anche premessa di tutto: la fedeltà al Concilio. E aggiungo: la difesa del Concilio. Io credo che dobbiamo farci carico, tutti, non solo della fedeltà al Concilio, ma della sua difesa. Perchè nella Chiesa riemergono spontaneamente tendenze, idee, modi di pensare che sono contro, che sono fuori, che sono prima del Concilio”(p.61). Ed inoltre: “in un piccolo libro di Enzo Bianchi c’è questa domanda: è ancora possibile una Chiesa che sia presidio di autentico umanesimo, spazio di dialogo e di recupero di principi condivisi, luogo di confronto fra etiche e atteggiamenti individuali e sociali diversi?”(p.65). Ed infine: “ma com’è possibile che dentro la Chiesa il criterio di verità non abbia un valore decisivo e dominante su ogni altra logica, e com’è possibile che il rispetto della dignità dell’uomo sia a sua volta sacrificato a logiche istituzionali?”(p.66).
Il che spinge dappresso l’illustre autore a tornare sull’autonomia del credente entro lo spinoso rapporto tra fede e ragione: “non occorrerebbe partire dalle tante ragioni, che sono pensieri, ma sono anche dolori e speranze, attentamente vagliate alla luce della coerenza evangelica, piuttosto che da un’astratta coerenza di un’inesistente Ragione con una Fede diventata dottrina e diritto naturale?” (p.73).
Il tema ritorna nelle pagine sul tema della laicità: “la religione…deve accettare in pieno la dimensione della laicità, che è la condizione per una sua rinnovata presenza nel mondo contemporaneo”, “essere laici significa sentirsi partecipi di una comune umanità prima ancora di aderire a un qualsiasi credo religioso”(p.92).
Il capitolo che ritengo particolarmente intenso, senza nulla togliere al valore delle altre parti del libro (ad esempio,al cap.IX, su “Democrazia e verità”), è quello conclusivo, che porta un titolo emblematico “Pensieri aperti”.
In esso Scoppola dimostra grande dignità nella sofferenza e dinanzi alla morte: “parlo della sofferenza, neppure del dolore, che è parola troppo nobile”.(p.118)
Sofferenza accettata con spirito cristiano, con consapevolezza dell’incurabilità del male, ed anche interrogandosi sulla “volontà di Dio”: “ma che cosa è la volontà di Dio? E’ quello che accade? E’ molto difficile pensare che la volontà di Dio sia semplicemente quello che accade: possono essere volontà di Dio i cinquanta milioni di morti della seconda guerra mondiale? E perchè il mio tumore…dovrebbe essere volontà di Dio?”(p.120).
Sicuramente il punto più alto di uno stile diaristico, confidenziale ed elevato al contempo sono i paragrafi in cui ci si sofferma sull’ “assurdo” e sul “silenzio”.
L’assurdo è uno dei concetti principali dell’esistenzialismo novecentesco e della filosofia di Albert Camus: esso coincide con l’irrompere di eventi inispiegabili, “non razionali”, che travolgono e mutano radicalmente la realtà.
“Penso che il fatto di credere, di avere una visione escatologica, non ci esoneri affatto dalla condizione umana e quindi dal condividere il senso dell’assurdo che è intorno a noi. Quando poi quest’assurdo ci investe nelle nostre carni…Eppure con l’assurdo dobbiamo misurarci, dargli un senso, dominarlo: anche l’assurdo fa parte della realtà”(p.125).
Qui è opportuno pure menzionare, perchè in sintonia con l’insieme di domande che l’autore solleva, l’esistenzialismo cattolico di Luigi Pareyson ed un suo saggio magistrale: “Un discorso temerario: il male in Dio”.
Con il richiamo al silenzio l’opera si chiude con la stessa chiarezza d’intenti con cui si era aperta: “non voglio che queste pagine diventino lo spazio del lamento…”, “sta in silenzio davanti al Signore e spera in lui”(Salmo 37,7).