Sul Manifesto per la sinistra cristiana
di Giovanni Bianco
La politica può superare la sua crisi? Può uscire dalle secche del pragmatismo e del mero tatticismo? Può volare più in alto dei discorsi di ingegneria costituzionale e dei vuoti equilibrismi dialettici? Può essere innervata da una nuova stagione di partecipazione democratica? Può porsi oltre il trionfo dell’economicismo e del mercato globale?
Queste domande, senza una risposta immediata, ma soltanto altamente problematiche, mi ponevo dopo un’attenta lettura del molto interessante “Manifesto per la sinistra cristiana”, sottoscritto da protagonisti della vita politica della prima Repubblica e del mondo cattolico, quali Raniero La Valle, Adriano Ossicini, Giovanni Galloni, Giovanni Franzoni.
Manifesto che non intende rifondare il disciolto “Partito della sinistra cristiana”, che chiuse la sua esperienza politica nel lontano 1945, bensì vuole indicare degli ideali, delle prospettive di cambiamento all’area progressista, alla sonnolenta società civile italiana e ad un sistema politico “ingessato”, incapace di rappresentare il Paese reale, avvitato su sè stesso e sulle sue diatribe interne.
Manifesto che ambisce ad un progetto di alto profilo. Si parla, infatti, di “sovranità del popolo”, di riscoperta della partecipazione politica, di eguaglianza, solidarietà, laicità, di unità di credenti e non credenti, di pacifismo.
E si richiamano figure di assoluto rilievo della sinistra cristiana, da Aldo Moro a Franco Rodano, da Romolo Murri ad Adriano Ossicini, da Don Sturzo a Giuseppe Dossetti.
La politica è, perciò, al centro di una riscoperta dei valori dei cristiani democratici e di sinistra ed è concepita come servizio per gli altri, per i poveri, le vittime, gli esclusi.
Dunque, sono indispensabili azioni volte a rianimare una società pluralista cianotica e sfibrata, un popolo disattento e deluso , per un’opposizione che muove dal basso, da spazi di dialogo e di confronto che mirano a creare veri e propri “contropoteri”, gruppi attivi e propositivi.
Il Manifesto si richiama, perciò, ai principi fondamentali della Costituzione democratica e, senza dubbio, al più innovativo di essi, al principio di eguaglianza sostanziale.
Principio la cui stesura fu possibile in Assemblea Costituente grazie alla convergenza tra la sinistra cattolica dossettiana e la sinistra marxista e che indica una “rivoluzione promessa”, l’ampliamento delle basi democratiche dello Stato, un ruolo attivo e propulsivo di quest’ultimo nella vita economica e sociale, per la rimozione di quegli ostacoli che impediscono l’effettiva titolarità dei diritti riconosciuti in Costituzione da parte di tutti i consociati e la partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.
Eguaglianza sostanziale che significa “democrazia sociale”, libertà dal bisogno, insufficienza dei tradizionali diritti civili e politici, e conseguenziale riconoscimento costituzionale dei diritti sociali, per l’attuazione di uno Stato democratico sociale effettivamente riformatore (realizzazione, comunque, da adeguare ad una società post-industriale e complessa).
Di conseguenza, il discorso investe la stessa definizione della democrazia, i suoi caratteri tipologici, l’inadeguatezza di una sua concezione meramente formale-procedurale e non pure sostanziale.
E’ possibile oggi riutilizzare, aggiornato, il principio richiamato, e con esso il complesso insieme dei fini costituzionali?
La possibilità è anzitutto legata ad una “riscoperta” della partecipazione,e pure, in modo specifico, di quella politica, come il Manifesto ben indica: all’attuazione dell’art.49 Cost., che costituzionalizza i partiti quali strumenti essenziali della dialettica tra governati e governanti, al valore della solidarietà sociale, vero e proprio fulcro del solidarismo cattolico,alle formazioni sociali (contemplate dall’art.2 Cost.), che devono ravvivare la società pluralista perchè ne costituiscono il motore.
Insomma, si cerca un’alternativa al “pensiero unico”, a quelle che si definiscono “le mani invisibili del Mercato”,che generano anche “inutili stragi”, guerre, e, pure, ad un’orizzonte politico limitato nelle pastoie della democrazia maggioritaria, così auspicando un ritorno (sicuramente da problematizzare) al proporzionale.
Queste tesi possono costituire un momento di crescita dei cattolici di sinistra ed, anche, un contraltare a quella che qualcuno definiva “l’esaurimento della spinta propulsiva del cattolicesimo democratico”?
La sfida è aperta: spetta a noi diventarne attori consapevoli, capaci di contribuire all’attivazione di “minoranze critiche”, realmente alternative ad un uso disinvolto e spregiudicato del potere politico, ad una dittatura camuffata.