Stato di necessità e cambiamento

di Claudio Sardo

Il governo di Enrico Letta nasce da uno stato di necessità e da una grave sofferenza politica. Il pubblico, esplicito sostegno che il Capo dello Stato ha ribadito anche ieri, con quella dichiarazione accorata e irrituale, rappresenta al tempo stesso il punto di maggior forza e quello di maggior debolezza del nuovo esecutivo. Enrico Letta potrà contare su Giorgio Napolitano, sul suo peso e sulla sua autorevolezza in Italia e all’estero: è tanto in un sistema oggi di fatto collassato.
Resta però l’eccezionalità di questa larga intesa politica, nata da una sequenza di fallimenti, sconfitte, impossibilità.
Nel contesto dato, Letta è riuscito a mettere insieme una squadra di ministri giovani e a sottrarsi ai veti di Berlusconi, promuovendo un rinnovamento generazionale che, magari, potrà aiutare persino l’evoluzione democratica del partito della destra. La presenza femminile ha dimensioni record per quantità, ma anche per l’importanza dei dicasteri assegnati: e questo è un passo tutt’altro che secondario nella nostra risalita in Europa. Anche sui temi economici e dello sviluppo Letta ha tenuto il punto nelle difficili trattative: e dalla coppia Saccomanni-Zanonato passa ora la sfida del centrosinistra per modificare finalmente, e concretamente, le politiche recessive e di austerity. Il ministero della Giustizia infine – crocevia delle incursioni berlusconiane – è stato affidato ad Anna Maria Cancellieri, sul cui senso della legalità e dello Stato nessuno può dubitare.
Certo, gli elettori e i militanti del Pd mai avrebbe voluto firmare questo accordo politico. Non perché la «grande coalizione» sia in sé vergognosa. Ma perché la crisi della seconda Repubblica, accentuata dall’ondata di sfiducia espressa nel voto di febbraio, imponeva da subito una riforma della politica nel segno della competizione trasparente sul governo, e del lavoro comune sulle riforme costituzionali ed elettorali. Ciò non è stato possibile. La proposta di un governo di minoranza del centrosinistra (e di un secondo binario per le riforme), avanzata a lungo da Bersani, è stata respinta dal cinismo e dagli opportunismi convergenti di Grillo e Berlusconi. Poi però ad affondare definitivamente il tentativo ci hanno pensato lo stesso Pd e i suoi gruppi parlamentari, con la vergognosa esibizione nelle elezioni presidenziali, quando sono stati bocciati i nomi di Franco Marini e Romano Prodi.
Letta è partito dallo scenario costruito attorno alla rielezione di Giorgio Napolitano. Ha sentito su di sé, sin dall’inizio, i timori e lo scetticismo diffusi nell’opinione pubblica di centrosinistra. E soprattutto si è dovuto misurare con l’inaffidabilità e le riserve di Berlusconi e di gran parte del suo gruppo dirigente. La verità è che il Cavaliere è un campione di inaffidabilità, come dimostrano gli ultimi vent’anni, in cui ha sempre tentato di fregare gli interlocutori. Anche stavolta ha alternato minacce, profferte, diktat. L’impressione è che si tenga aperta la possibilità di far saltare tutto, quando riterrà di averne convenienza. Ma non c’è alternativa a questa strada accidentata: senza riforma delle politica e delle istituzioni, l’Italia non avrà un governo e un Parlamento all’altezza dei suoi problemi e l’intero edificio democratico rischierà di crollare.
Il neo-presidente del Consiglio ha preteso, e ottenuto, un chiaro ricambio generazionale come contropartita delle larghe intese. Nel suo governo non ci sono i protagonisti del conflitto politico di questi anni: i volti nuovi segnano punti a favore. La foto di gruppo, che domani si scatterà al Quirinale, potrebbe rappresentare un ponte per uscire dalla seconda Repubblica, verso una nuova competizione tra destra e sinistra (e speriamo che anche i Cinque stelle partecipino almeno al lavoro sulle riforme, abbandonando la strada degli insulti oggi preferita da Grillo). Se ciò accadrà, il governo ne trarrà indubbiamente giovamento. Anche se, va detto, oggi la squadra ha perso qualcosa in competenza e valore aggiunto, ad esempio rinunciando a un ministro degli Esteri come Massimo D’Alema, che avrebbe rappresentato un collegamento prezioso con quella sinistra europea, che resta la leva principale per il cambiamento degli indirizzi politici ed economici.
Enrico Letta è il primo presidente del Consiglio del Pd. Il primo dalla fondazione del nuovo partito. Ma lo stato di necessità rende questo primato quasi un paradosso, visti i dubbi e i tormenti che attraversano l’opinione pubblica di sinistra e di centrosinistra. C’è bisogno di un confronto aperto e critico per rigenerare il Pd dopo le sconfitte. C’è bisogno di una partecipazione ampia, e anche di coraggio innovativo. C’è bisogno di una visione, e al tempo stesso di una nuova idea di partito. Ma nulla è possibile senza l’umiltà di ripartire dai problemi concreti dell’Italia, dalle famiglie che non arrivano alla fine del mese, dalle imprese che boccheggiano, dal lavoro che manca. Non si ricostruirà mai una sinistra al riparo dagli interessi reali, dei bisogni sociali e dalle concrete risposte di governo.
Il governo Letta, così nuovo e così difficile, è un’opportunità per la sinistra. Proprio perché è oggi la speranza a cui si aggrappano le forze economiche e sociali del Paese, che chiedono anch’esse il cambiamento. Non è il governo che speravamo. Ma il cambiamento sta ora nella battaglia e nell’intelligenza che il centrosinistra e i suoi uomini metteranno a servizio dell’Italia, della scuola, dell’ambiente, del lavoro, delle classi più deboli, della cultura, della ricostruzione di una solidarietà sociale.

(“L’Unità”, 28 aprile 2013)

2 pensieri riguardo “Stato di necessità e cambiamento

  • 2 giugno 2013 in 9:25
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    Le dichiarazioni accorate ed irrituali sono direttamente proporzionali al cinismo con cui si è addivenuto a questa magnificenza di governo.
    Essere presi in giro come cittadini è già un’impresa che costa un’immane pazienza per rimanere civili. Il condimento di dichiarazioni accorate potrebbe minare quella pazienza.
    eva

  • 2 giugno 2013 in 14:31
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    Il condimento di dichiarazioni accorate e parata sobria sono l’apoteosi della falsità fatta sistema. eva

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