Intorno a due libri su Aldo Moro
di Giovanni Bianco
La più recente letteratura sulla figura di Aldo Moro conferma l’attualità di essa ed i diversi misteri che circondano la sua tragica morte.
Si tratta di contributi pregevoli, scritti da personalità che furono vicine al leader pugliese e ne colsero le più rilevanti novità politiche e la profondità di pensiero,e mi riferisco in particolare a Giovanni Galloni ed a Corrado Guerzoni.
Il primo, in “30 anni con Aldo Moro” (Editori Riuniti, 2008), propone una ricostruzione della strategia politica morotea volta a sottolineare la sua originalità e l’importanza indiscutibile che essa ebbe sia per l’allargamento delle basi dello Stato democratico, sia per l’affermazione di un dialogo costante e di una non occasionale collaborazione politica tra la D.C. ed i due maggiori partiti della sinistra, il P.C.I. ed il P.S.I.
Cosicchè i fatti storici esaminati sono sempre ricondotti, anche quelli più critici e contorti, ad alcuni capisaldi: i principi fondamentali della Costituzione repubblicana; la concezione della D.C. come “partito non moderato, popolare, antifascista”; l’importanza della formula dei “partiti dell’arco costituzionale” per superare la “conventio ad excludendum” verso il P.C.I. e per avviare la molto travagliata stagione della “solidarietà nazionale”; i misteri irrisolti del “caso Moro”, che l’autore indica con puntualità, pure ricordando le torbide connessioni internazionali ed il ruolo della C.I.A.
Così, ad esempio, citando un discorso che Moro tenne nel luglio del 1959 a Roma, ai segretari regionali e provinciali della D.C., se ne riportano passi significativi (p.94), quale quello che afferma che “la D.C. è una forza popolare, è un partito innovatore che non vuole lasciare le cose come sono”, in tal modo anche lanciando un monito alle ali conservatrici del suo partito.
Altrettanto rilevante è il discorso del settembre dello stesso anno dedicato alla figura di Don Sturzo: in esso si ricordarono l’antifascismo (“i popolari alzarono per primi la bandiera dell’antifascismo”) e la laicità (“il partito popolare italiano si ispira all’idealità cristiana, ma non prende la religione come elemento di differenziazione politica”) del P.P.I. (p.95).
L’antifascismo di Moro fu sempre presente nelle sue scelte politiche: le pagine (p.93ss.) sul governo Tambroni – sui tumulti di piazza di Genova e sulla successiva formazione del terzo governo Fanfani, che ottenne l’astensione del P.S.I. e fu un esecutivo di transizione verso il “centro-sinistra organico”, entrambi eventi del 1960 – ben delucidano quest’indiscutibile caratteristica del pensiero dello statista. La quale aspirava, a ben vedere, ad una “convergenza antifascista” di tutti i partiti democratici: da qui la formula delle “convergenze parallele”, che voleva significare necessità che tutte le forze politiche antifasciste convergessero per rendere attuabili esecutivi in grado di salvaguardare il sistema democratico.
Intervenendo durante il dibattito sula fiducia al governo Fanfani, nell’agosto del 1960, Moro affermò, riferendosi ai fatti di Genova, che era inconcepibile parlare di “ispirazione democratica del M.S.I.” perchè ” se esso è, come è, un movimento neofascista, non può essere democratico”(p.106).
Chiarezza d’intenti e strategia di lungo periodo che non sono venute meno quando lo scontro interno nella D.C. ha fatto prevalere le correnti più conservatrici ed ha messo in minoranza Moro, come nel 1969; che spinsero lo statista, anche grazie alla spiccata attenzione prestata alla rivolta studentesca del 1968, a proporre la “strategia dell’attenzione verso il P.C.I.”, per “misurarsi sulla dialettica democratica con le altre parti che pure concorrono a interpretare il paese”(p.153).
Da qui si sviluppa la fase politica della “solidarietà nazionale”, che ha preso l’avvio, sia pure lentamente, dopo il golpe cileno del 1973, del quale subito intesero i “sinistri presagi” sia Moro che Berlinguer.
Solidarietà nazionale che è stata anche la risposta all’esaurimento della spinta propulsiva del centro-sinistra ed è coincisa con un tentativo, avviato nel 1975 con la segreteria di Zaccagnini,di rinnovamento della D.C. nell’unità del partito.
La cruenta interruzione di essa ha impedito che “il nostro paese raggiungesse l’equilibrio di una vera e propria democrazia alternativa e ha deviato la stessa funzione dei partiti”; ed “oggi…dobbiamo constatare che non esiste, entro omogenei principi costituzionali, una reale forza di centro-destra democraticamente alternativa al centro-sinistra” (p.298).
Dunque, la morte di Moro si è riverberata su una consistente parte delle vicende politiche successiva e le più gravi anomalie della democrazia italiana (Forza Italia è, ad esempio, definita la “più grande concentrazione del capitalismo italiano”).
Contrariamente a quanto sostenuto da un certo “revisionismo storico” sul “caso Moro”, e penso a Vladimiro Satta, al suo libro del 2006, “Il caso Moro ed i suoi falsi nmisteri” (Rubbettino editore), che nelle conclusioni del saggio monografico giunge anche a ritenere che l’assassinio di Moro non influenzò in alcun modo lo sviluppo degli equilibri politici italiani, si ben rimarca l’infausta influenza che le tragiche vicende del 1978 hanno esercitato sulla democrazia italiana.
A sua volta Corrado Guerzoni in “Aldo Moro”(Sellerio editore, 2008), con prosa forbita e suggestiva, ripercorre l’intera esistenza di Moro, ponendo in luce le divisioni interne della D.C., gli odi personali,la solitudine politica e la lungimiranza del leader di Maglie (definito un “politico chiaroveggente”).
Anzitutto, pure in tale contributo si dedica ampio spazio all’antifascismo di Moro: emerse già in Assemblea Costituente, nella quale quest’ultimo dichiarò che la Costituzione non poteva essere “afascista”, bensì doveva caratterizzarsi quale “antifascista” (“la Costituzione nasce, infatti, dalla Resistenza e dalla lotta”)(p.52), perchè “fare una Costituzione significa cristallizzare le idee dominanti di una civiltà, esprimere una formula di convivenza, fissare i principi orientatori di tutta la futura attività dello Stato”. (p.52)
Inoltre, l’autore si sofferma sull’idea che l’unità della D.C. dovesse voler dire “trasferire nella vita democratica forze che democratiche non erano mai state…, per spingere il mondo cattolico a scegliere la democrazia…”(p.71), e questo anche lottando contro “i venti di destra”, “una sorta di sabbia mobile” che “irretisce e sospinge sul fondo”.
E’ ben chiaro in Moro, sin dal congresso di Firenze del 1959, che un’eventuale alleanza con la destra significa “politica suicida”.
Quindi, in tale direttrice diviene indispensabile progettare convergenze di lungo periodo con le sinistre, pur rifiutando il totalitarismo comunista; perchè la democrazia, a differenza del fascismo che fu “rottura, divisione, contrapposizione”(p.66), vuol dire “unità del paese”, in quanto “l’unità è antidoto al fascismo e alla destra”.
Di conseguenza, Moro è stato “il nemico da battere” del neofascismo e della destra, del “moderatismo democristiano”(p.67), che “individua ben presto in lui il cavallo di Troia, e cioè il punto debole, attraverso cui può passare la sinistra”.
Guerzoni, con parole incisive, scrive che la destra “avrebbe beneficato dello strumento brigatista per l’eliminazione del suo nemico storico, trovandosi poi appianata la strada fino a irrompere sulla scena nazionale”(p.134); e che essa “ha molto a che vedere con l’uccisione di Moro e con la distruzione della sua politica”, perchè “è fuori discussione che c’è stata una destra nazionale ed internazionale…che ha duramente avversato Aldo Moro…”.
Ed è proprio per respingere questo blocco sociale e politico che il leader pugliese, come pure chiarì nel colloquio che ha avuto con Scalfari nel febbraio del 1978 (pubblicato postumo su “Repubblica” nell’ottobre dello stesso anno), guardava al dialogo con la sinistra quale un fattore basilare della dialettica democratica. (p.190)
Pur non perseguendo il “compromesso storico”, ma la collaborazione con le forze progressiste per costruire la “terza fase”,la “democrazia compiuta”, quella delle “alternanze di governo”, in cui la D.C. “sarà liberata dalla necessità di governare a tutti i costi”; tuttavia egli riteneva imprescindibile un periodo antecedente, “dell’emergenza”, della “solidarietà nazionale” nella diversità, nel quale governare insieme avrebbe dovuto significare dare “le prove della propria responsabilità e della propria capacità”.