In morte di Giulio Andreotti

di Giovanni Bianco

La morte di Andreotti non poteva passare in silenzio. Questo importante esponente della vecchia d.c. ha rappresentato soprattutto l’anima più torbida e misteriosa della prima Repubblica e del suo partito e ciò a prescindere da eventuali suoi meriti politici.

E’ stato detto che sarà la storia a giudicarlo.E’ indiscutibile. Tuttavia la “storia siamo noi”, soprattutto in questo caso, nel senso che le sue vicende, i suoi torbidi legami, l’essere stato il politico di riferimento di parte consistente del “sommerso della Repubblica”, cioè di quella piovra tentacolare che includeva la mafia, i servizi segreti deviati,la p2, gladio, la finanza vaticana e lo Ior ecc., ovverosia il “substrato” del sistema di potere che ha retto le sorti del Paese per quasi mezzo secolo, ci riguarda da vicino e non può non spingerci ad analizzare e riflettere criticamente. Affermare questo non significa compiere un esercizio di “dietrologia”, ma vuol dire avere il coraggio di pensare con autonomia di giudizio e senso critico ed al di fuori di certo giustificazionismo melenso che suona stonato e che prescinde dalla storia reale.

Il Divo Giulio ha incarnato l’anima più cruda e sgradevole del potere democristiano e l’ala più conservatrice e clericale del suo partito, pur dovendo riconoscergli indubbie e notevoli capacità politiche e di mediazione. Quindi l’indentificarlo con tutta la d.c. mi sembra riduttivo, schematico e fuorviante, perchè questa criticabile forza politica comprendeva diverse componenti, tra loro spesso non omogenee ed in contrasto . Si abbia almeno l’onestà intellettuale di riconoscere a politici come Dossetti, Moro, Zaccagnini un’altra e ben più nobile visione dello Stato e della “cosa pubblica”, nonostante tutti i limiti della d.c. che lo stesso Moro ha descritto con grande lucidità e condivisibili parole pesanti come macigni nel suo “Memoriale” (in cui essa è definita “una famiglia litigiosa e cattiva”).

Qui torna d’ausilio proprio il giudizio sul Divo Giulio contenuto in quest’ultimo scritto, in cui si parla di un uomo chiuso nel suo grigio disegno di potere, dunque attuatore di una politica di potere per il potere, per il dominio, di una sorta d’idea assolutistica dell’ uomo politico , che si muove al di fuori delle regole, che persegue i suoi scopi senza freni morali; di un machiavellismo camuffato da buone intenzioni e basato sull’astuzia, sul cinismo opportunista ed eventualmente sulla forza (“Andreotti è restato indifferente, livido, assente, chiuso nel suo cupo disegno di gloria…Che significava tutto questo per Andreotti una volta conquistato il potere,per fare il male come sempre ha fatto il male nella sua vita?…).

Così come l’idea andreottiana della Chiesa era soprattutto di potere. Siffatto era il nucleo forte del suo rapporto stretto con le gerarchie ecclesiastiche,del suo contatto privilegiato con gli ambienti vaticani (almeno con parte di essi e con il famigerato Ior), che tanto ha giovato alla sua fulgida carriera, di quel suo “parlare con i preti”, come lui stesso ammetteva, per consolidare la base del consenso della sua corrente e del suo partito.

Insomma, elogiare le indiscutibili doti andreottiane non può significare trascurare le ombre ingombranti che non potranno non pesare sul giudizio che gli storici e gli intellettuali dovranno fornire su di lui. Non si dimentichi, ad esempio, che nell’ultima intervista di rilievo rilasciata il Divo Giulio difese ancora una volta e con incredibile sangue freddo il finanziere criminale Sindona  (“non si poteva che parlarne bene”), criticando con una battuta di cattivo gusto l’eroico avvocato Giorgio Ambrosoli.

Perciò ho apprezzato non poco la determinazione e la coerenza del figlio di Ambrosoli, che è uscito dall’aula del Consiglio regionale lombardo durante il minuto di silenzio commemorativo della figura di Andreotti. Così come mi sono parse necessarie le precisazioni di Caselli sulla sentenza della Cassazione che ha assolto soltanto parzialmente il Divo Giulio dall’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa (è scritto, infatti, che i fatti compiuti prima del 1980 sono prescritti, riconoscendo dunque che sono avvenuti rapporti, incontri e contatti tra Andreotti e la cupola mafiosa sino a quell’anno).

C’è chi ha sostenuto che il Divo Giulio sia stato perseguitato. Senza dubbio alcune esagerazioni vi sono state. Tuttavia ritengo che il “monologo sul potere” nel film “Il divo” , pur con talune frasi eccessive, sia straordinariamente eloquente : “il perpetuare il male per garantire il bene” evoca il peggio dell’andreottismo, quel mondo fosco che era la sua corrente, Evangelisti, Sbardella , Lima e tutti gli altri suoi sodali.

 

 

 

 

 

 

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