Fede nel diritto
di Giovanni Bianco
E’ stato proposto all’attenzione dei lettori, nel 2008, il testo inedito di una conferenza che il giurista Piero Calamandrei tenne il 21 gennaio 1940 alla Fuci di Firenze, “Fede nel diritto” (ed.Laterza), con saggi di Guido Alpa, Pietro Rescigno e Gustavo Zagrebelsky , ed un’appendice con un saggio di Silvia Calamandrei (“Tra Socrate e Antigone”, p.111 sgg.) ed “il dialogo epistolare tra Calogero e Calamandrei” (p.131 sgg.).
Calamandrei, annotando nel suo diario (con data 27 gennaio 1940) l’importanza dell’incontro del 20 gennaio, scrive che davanti all’arcivescovo e ad un “pubblico strano:cattolici, ebrei, antifascisti, magistrati, professori” ha sentito “un caldo consenso”, e si pone una serie di domande incalzanti e laceranti (…ma siamo poi nel vero a difender la legalità?…siamo noi i precursori dell’avvenire, o i conservatori in dissoluzione?…).
Il discorso di Calamandrei (p.61sgg.) è pronunciato pochi mesi dopo l’invasione nazista della Polonia e si appella alla legalità ed alla certezza del diritto, valori in antitesi con i sistemi giuridici totalitari o autoritari.
Nell’incipit dell’intervento è, infatti, affermato che “mai come in questo tormentato ventennio in cui le nostre generazioni hanno vissuto, dopo finita una guerra, una pace apparente che era in realtà febbrile preparazione e angosciosa attesa della nuova guerra che oggi insanguina il mondo, i problemi teorici che hanno affamato in tutti i tempi le menti dei filosofi sulla essenza della giustizia e sulla natura razionale del diritto si sono presentati con altrettanta urgenza alle coscienze come vitali e tormentosi problemi di vita pratica” (p.63).
L’analisi muove, perciò, dalla chiara consapevolezza della “crisi del diritto”, che è “crisi di incomprensione della importanza del diritto”, che, nei sistemi dittatoriali, è divenuto un mero strumento dei detentori del potere politico, per cui “è facile accorgersi che al centro della odierna crisi del diritto sta proprio l’abbandono del sistema della legalità già attuato da alcuni regimi, e il discredito in cui la legge rischia di cadere anche là dove essa non è stata ancora bandita dagli ordinamenti positivi”(p.85).
Ora, al riguardo si evidenzia il “trionfo del diritto libero” sia nella Germania nazista sia nella Russia bolscevica, negli anni immediatamente successivi alla rivoluzione, ricordando come il “movimento del diritto libero” fosse stato criticato dai giuristi italiani, considerato “una stramberia affatto sproporzionata al grande rumore che aveva suscitato e, in quanto essa mirava, si disse, alla “liberazione del diritto dalla scienza” la giudicarono (per adoprar le parole del Chiovenda) un movimento di reazione contro la codificazione e contro il metodo scientifico”(p.87).
E si pone in risalto la totale arbitrarietà del diritto nazista, “…in Germania, ove la dottrina al motto di “Kampf wider subjektives Recht”, è in armi contro il diritto soggettivo, ogni facoltà individuale è ormai considerata come un pallido ed instabile riflesso della ragion di Stato”(p.88-89).
Per cui il giurista denuncia un vero e proprio attacco, fondato su “equivoci storici”, “ai principi fondamentali su cui è costruito lo Stato di diritto”; basato su “pericolosi pregiudizi”, tra i quali “sta in prima linea” “quello secondo il quale il principio di legalità, la subordinazione del giudice alla legge, la divisione di lavoro tra giustizia e politica si dovrebbero considerare come vecchi ferri d’uso, appartenenti al bagaglio ideologico dello Stato liberale, ed estranei alle nuove esigenze politiche dello Stato autoritario”(p.90-91).
Lo Stato autoritario è, di conseguenza, uno Stato che “si ispira” ad “un rafforzamento dell’autorità sulla libertà” e ad “un maggior rigore dei limiti segnati alla iniziativa dei cittadini”; nel quale “la legge è screditata”, e quindi non uno “Stato forte”, perchè “la forza degli Stati è in funzione della loro legalità”, pur essendo “fortemente concentrato” (p.92).
Dinanzi all’oscuramento delle garanzie del diritto il giurista non può non avvertire un “senso di scoramento e di disiorentamento”, al quale occorre reagire “con energia e con fede”, in nome di un'”idea illuminante e confortante che è la giustizia” e della “lotta per il diritto, che vuol dire lotta per un migliore diritto”(p.95), perchè la “forza che crea il diritto non è la cieca violenza, ma è sopra tutto, alla fine, la forza della coscienza morale, la fede in certi insopprimibili valori umani, l’aspirazione verso la bontà e verso la pietà”.
Lotta per il diritto che è anche ed anzitutto lotta “per il principio di legalità”, nel quale “c’è il riconoscimento della uguale dignità morale di tutti gli uomini”, mentre “nell’osservanza individuale della legge c’è la garanzia della pace e della libertà di ognuno. Attraversol’astrattezza della legge, della legge fatta non per un solo caso ma per tutti i casi simili, è dato a tutti noi sentire nella sorte altrui la nostra stessa sorte…”(p.105).
Gustavo Zagrebelsky, nel suo saggio (“Una travagliata apologia della legge”, p.3 sgg.), parla di “un testo tormentato”,inispiegabilmente conservato per decenni in una cartellina, che rappresenta “un’apologia della legalità”(p.5), che “non è solo un elemento della forma mentis del giurista, o di quel tipo di giurista (legalitario, appunto) nel quale Calamandrei si riconosceva. E’ per lui un elemento morale, che corrisponde esso stesso a un’idea di giustizia”. Elemento morale che “risiede nella forma-legge in quanto tale, cioè nella forma generale e astratta in forza della quale si esprime, poichè questa è la “forma logica” della solidarietà e della reciprocità tra gli esseri umani, su cui soltanto società e civiltà possono identificarsi”(p.7).
Anche se Calamandrei nella conferenza tace sulla vocazione autoritaria del fascismo e sulle leggi razziali del 1938 per “il clima d’intimidazione poliziesca del tempo”(p.9), l’elogio della legalità non “era…riferito alla pura e semplice forma del potere che si fosse espresso nel rispetto delle vigenti procedure per la produzione di atti d’imperio, chiamate leggi. Era rivolta a quella legalità che esige una determinata struttura della volizione contenuta in tali atti d’imperio: la generalità e l’astrattezza…”, nell’ambito di un’idea giuspositivistica di diritto secondo la quale “non c’è diritto fuori dalla legge e la legge è tutto il diritto”.
Zagrebelsky, perciò, sostiene opportunamente che “la preoccupazione di Calamandrei, risultante con evidenza dalla conferenza e da numerosi passi di altri scritti coevi, era la difesa, se non contro l’autoritarismo o il totalitarismo, almeno contro l’arbitrarietà del potere”, perchè “delle leggi dei regimi autoritari o, peggio ancora, totalitari, tutto si può dire, ma non che esse valgano a protezione della sicurezza delle persone”(p.11).
Perciò nella conferenza si critica il “diritto libero”, che non è inteso nel senso di Ernst Kantorowicz, uno dei maggiori teorici del “movimento del diritto libero”, non è concepito quale “il potere dei giudici di andar cercando il diritto nella sfera di qualche concezione ideale della giustizia del “caso per caso”, ma il potere di organi del “sano sentimento popolare” o della rivoluzione in cammino di andare illimitatamente al cuore dell’ideologia totalitaria e rivoluzionaria e di trarne le conseguenze sul piano dell’azione giudiziaria”(p.13).
Tuttavia, se da un lato l’atto di “fede” calamandreiano nella legge è il motivo portante del discorso pronunciato alla Fuci, d’altro canto emerge nel testo una contraddizione, sia pure parziale, perchè si rivendica “un ruolo costruttivo della scienza giuridica”, perchè “la realtà positiva del diritto è più vasta e più organica di quella che affiora nell’apparenza del diritto scritto”; aporia che esprime “un travaglio”, perchè comunque, secondo Zagrebelsky, l’autonomia della scienza giuridica nel testo in esame resta complessivamente “una libertà vigilata, cioè una concessione del legislatore”, e non assurge a tratto caratterizzante di questa stessa scienza.
Pietro Rescigno, ne “Il rifiuto del sistema normativo dei totalitarismi”(p.25 sgg.), si pone l’intento di indagare su tre distinti plessi tematici, cioè l’influenza dell’ambiente al quale il testo era destinato, la Fuci e l’Ac fiorentina; la condanna del nazismo e del comunismo sovietico; l’argomento dello Stato autoritario; sostenendo, inoltre, che “un inedito di Calamandrei rappresenta, non solo per il lettore giurista ma per ogni uomo di cultura, una preziosa opportunità per attingere a una fonte davvero inesauribile di pensiero critico e di profonda saggezza”.
Sull’influenza dell’ambiente in cui è stata pronunciata la “magnifica conferenza” secondo Rescigno non vi sono dubbi,essendo collocate “in primo piano le componenti cristiane del discorso” ed essendo ben presente “l’insistenza su una concezione del diritto e della giustizia…che vuol riempire di senso concreto le nozioni di giustizia, razionalità, solidarietà come espressive dei “valori intimi dell’uomo che hanno, in ultima analisi, la loro fonte prima in Dio”(p.29).
Ciononostante, si osserva acutamente che Calamandrei resta “un giurista rigorosamente laico”, perchè “dalla riflessione sul diritto propria della tradizione cristiana” “non è disposto a ricevere e a far proprie le suggestioni del diritto naturale; ne condivide la premessa dell’eguale dignità degli uomini e vede garantita la parità nella misura più alta dai principi di legalità e di certezza”.
La laicità di Calamandrei, peraltro, è confermata dal titolo della conferenza, perchè “la fede nel diritto” sembra “quasi evocare la sacralità di una religione “civile””(p.33).
Quanto alla dura critica di nazismo e comunismo, condotta con riferimenti al diritto libero, Rescigno osserva che “dalla posizione intellettuale di Calamandrei e dei giuristi di educazione liberale del suo tempo…conviene ribadire, muovendo dall’elegante lezione fiorentina ora riscoperta, che la rivendicazione della certezza e della legalità, della formulazione legislativa e delle norme giuridiche, della funzione interpretativa vista come momento applicativo e non già di creazione, fu la miglior difesa contro la dittatura…”(p.38).
Sul tema dello Stato autoritario, infine, si nota che i giuristi liberali, tra i quali rientrava Calamandrei, non potendo attuare “un rovesciamento del sistema”, ravvisarono “nei principi di legalità e certezza la linea di difesa da assumere e da tener ferma nei confronti del regime, nella convinzione che un diritto rimesso a giudici e funzionari costituisse una deriva assai più pericolosa di un ordinamento ancora costruito attorno alla volontà del legislatore…”(p.42).
A sua volta Guido Alpa (nel saggio “Un atto di “fede nel diritto”,p.45 sgg.) scrive che Calamandrei “al diritto…chiede molto, così come al giurista che è “il suo sacerdote”, ed “il suo monito”, rivolto ai giovani della Fuci, “si impernia sulla “fede nel diritto”, diritto inteso non solo come guida, ma anche come scudo e come ancora di salvezza”(p.51); di un diritto che non può essere ridotto “ad atto volitivo”, perchè in tal modo “si rischia di legittimare “la violenza senza curarsi dei codici”.
Da ciò anche deriva la preoccupazione di distinguere “il ruolo della politica da quello del diritto: la politica è il motore della legge, la fabbrica della legge; il diritto è l’interpretazione e l’applicazione della legge”.
Ma “il diritto tecnico” non “è un diritto meccanicamente applicato”, “è un diritto praticato”; ed, inoltre,la scienza giuridica deve pure aspirare ad un diritto che “deve essere giusto e quindi egualitario”(p.59), perchè, come scriveva lo stesso Calamandrei nella sua recensione a “La certezza del diritto” di Lopez de Onate, richiamata da Alpa, “il diritto è perpetuamente in pericolo”.
Quindi è corretto affermare che dalla fine conferenza emerge “un diritto intriso di valori umani” e che il diritto di Calamandrei è “non tecnico” ma pieno di vita”(p.60).
In siffatta direttrice (p.111sgg.) si muove il saggio di Silvia Calamandrei, che nota che “ufficio del giurista è lottare attivamente affinchè il diritto vigente sia giustamente applicato”, perchè la “grande virtù civilizzatrice del diritto, anche inteso come pura forma, indipendentemente dalla bontà del contenuto, è che “esso non può essere pensato se non in forma di correlazione reciproca”: “nel principio della legalità c’è il riconoscimento della uguale dignità morale di tutti gli uomini”.
Concetto che, in ultima istanza, è il motivo principale dei contributi del testo e dell’idea calamandreiana di diritto, che mantiene una sua indiscutibile attualità.
Il che si deduce da pure da altri contributi dell’insigne studioso, che si mosse in quei foschi anni “per il sentiero stretto della certezza del diritto”, come ricorda la Calamandrei, citando la prefazione all’opera “Dei delitti e delle pene” di Cesare Beccaria (del 1943-44), in cui si legge che la legalità è “la prima condizione della libertà”; il saggio su “La crisi della legalità”, del dicembre 1944; l’arringa in difesa di Danilo Dolci, del 1956 (dove si afferma: “ricordate le parole immortali di Socrate nel carcere di Atene? Parla delle leggi come di persone vive, come di persone di conoscenza, “le nostre leggi, sono le nostre leggi che parlano”.Perchè le leggi della città possono parlare alle nostre coscienze, bisogna che siano, come quelle di Socrate, le “nostre” leggi”).
Le preoccupazioni ed i temi richiamati, peraltro e da ultimo, affiorano puntualmente nell’interessante scambio di lettere con il filosofo Guido Calogero, nel quale entrambi gli interlocutori sono”desiderosi di confrontarsi laddove etica e giustizia convergano nel campo di riflessione”(p.125).
Sul punto merita di essere citata, a conferma del travaglio del giurista, una lettera di Calamandrei della fine del 1939,nella quale, dopo aver evocato lo scenario “della neve caduta stanotte che imbianca non solo le Alpi Apuane, ma anche la spiaggia, in modo inusitato”, confida all’amico i suoi dubbi sulla scelta del titolo della conferenza che terrà tra circa un mese, a gennaio, alla Fuci, scrivendo che “quel saggio di cui ti parlai…non so ancora come si intitolerà: Esame di coscienza di un giurista o La certezza del diritto, o addirittura Fede nel diritto?…”.
E’ una splendida recensione, scritta con ottimo stile, che mette bene in luce le questioni discusse nel testo ed il “travaglio del giurista” Calamandrei.
” Fede nel diritto ” è un’opera,…un libro che ognuno dovrebbe avere sul comodino, accanto al letto, scoprendone ogni sera una parte…..una pagina…..un pensiero…e, ascoltando quelle parole del Maestro che sono un monito, oggi ancora di più; poichè, nell’epoca in cui il Maestro Calamandrei tenne la conferenza era evidente il pericolo in cui era la democrazia, mentre oggi la democrazia, essendo anche in pericolo, lo è in misura molto meno evidente ma,… comunque,… è in pericolo. Il pericolo è costituito anche da una malattia che colpisce i molti, e, che è l’indefferentismo nei confronti dei cittadini più esposti all’ingiustizia sociale. Basta andare in un Tribunale, per rendersi conto che quel cittadino a cui sono affidate funzioni pubbliche, ( art. 54 Costituzionale ) ossia il Giudice, in molti casi invece di realizzare la giustizia che deve aspirare verso la bontà e la pietà in favore del più debole, pur mantenendo salvi i concetti di astrattezza e generalità delle norme, di fatto trasforma la sua funzione in potere autoreferenziale, zittendo la parte processuale che chiede di pronunciar parola, invece di ascoltarlo per un attimo, rendendo il diritto ciò che non : fredda e cieca legge. Il Guardasigilli Grandi al quale ( grazie anche al contributo essenziale di Piero Calamandrei ) dobbiamo il codice di procedura civile, parlò di esso come del codice degli italiani e, non certo di questa e/o di quella categoria: il codice di tutti i cittadini italiani uguali davanti alla legge e ad ognuno dei quali è assegnata pari dignità sociale ( art. 3 costituzionale ) principio, messo sotto i piedi dai molti; ed anche per questo, oggi, la democrazia è in pericolo. Ottima recensione. Fabio-