Cos’è il neorazzismo?
di Carlo Bersani
E’ sensato tracciare un legame continuativo, anche solo nominale, tra le forme discriminatorie tipicamente (otto)novecentesche e quelle attuali? Alla luce di recenti dichiarazioni di Silvio Berlusconi e di esponenti dell’esecutivo, per cui l’Italia non sarebbe un paese “multietnico”, e dei meno recenti atti di governo e disegni di legge del ministero degli interni, la questione ha preso una forma nuova, ideologicamente meglio definita. E’ autoevidente che qualunque affermazione per cui questo paese “non è multietnico” implica che esso sia “monoetnico”, qualsiasi cosa questo possa voler dire.
Un solo “popolo”, dunque, semplificando l’etimologia. Non certo una sola “razza”, tantomeno sovradestinata rispetto alle altre. Il fatto è, però, che così “popolo”, come “razza”, sono stati, come sono tuttora, lemmi del tutto privi di un contenuto predeterminato.
Si tratta – si è trattato – di contenitori tanto vuoti quanto allusivi, connotati in senso emotivo (ciascuno può essere certo, può “sentire”, di appartenere ad un popolo, se non ad una razza, pur non sapendo come definirli e nemmeno quali siano). Dunque affermare qualcosa su di un “popolo”, oppure su una “razza”, significa anzitutto rivendicare il proprio potere di decidere che cosa questo effettivamente è.
Il che, in conversazione, può essere innocuo (se per esempio dico: “tutti i tedeschi sono biondi”). Diverso è il caso di un dibattito parlamentare, o della presa di posizione di un organo dello Stato. Tanto più che non c’è – non c’è mai stato – alcun parlamento, o legge, in grado di dire cosa fosse un “popolo”.
Perciò, il potere che si rivendica è arbitrario, per la sua stessa origine: il potere, non definito e non definibile da alcuna norma, di costruire i confini (personali) della collettività.
Questo è un primo punto di contatto: il termine “popolo” è, a tutti gli effetti, intercambiabile con quello di “razza”, o “lingua”, o “cultura”, o “confessione religiosa”. Ciò che conta non è il contenuto del termine, ma la rivendicazione (e in seguito l’esercizio, nei ben noti casi novecenteschi) di un potere – arbitrario per la sua origine, in questo caso – di definire.
Ma in realtà questo non è poi il solo tratto continuativo: sarebbe immemore ritenere che la “produzione seriale di cadaveri”, per usare un’espressione di Hanna Arendt, sia stato punto di partenza come di arrivo.
Il punto di partenza – quello di arrivo ha com’è noto una sua storia estremamente specifica – è stato l’esercizio di un potere arbitrario di definizione della cittadinanza: dove il termine “cittadinanza” non va inteso nè in termini sociologici, come appartenenza generica alla comunità, nè in termini legalistici, come il possesso dello status di cittadino contrapposto a quello di straniero. Va inteso piuttosto (in senso giuridico) come il complesso dei diritti che formano attualmente il contenuto della cittadinanza legale.
In altre parole: il percorso delle forme (otto)novecentesche di discriminazione (su base frequentemente, ma non necessariamente nè esclusivamente, “razziale”) ha preso le mosse dalla rivendicazione, da parte di ordinamenti “sovrani” (cioè,diciamo, superiorem non recognoscentes) del diritto (o della facoltà, o della libertà o del potere) di determinare chi, fra gli abitanti di un determinato territorio, potesse venire ammesso fra coloro che sono dotati di tutti i diritti (riconosciuti). In questo senso, poi, combinandosi con altri elementi e perciò sempre in maniera unica e irripetibile, il percorso che ha portato allo sterminio ha seguito movimenti oscillatori: di volta in volta con l’espansione degli ordinamenti “sovrani” verso nuovi abitanti e territori (ad esempio con le conquiste coloniali); o con la contrazione, subitanea o graduale, del numero degli aventi la totalità dei diritti entro il proprio territorio di partenza (con i fascismi e gli antisemitismi o con certa eugenetica).
Torniamo all’oggi: come isolare un gruppo di abitanti dagli altri, e renderlo per la sua stessa origine estraneo alla legge comune? Il sistema prescelto sembra consistere nella produzione di un’invalicabile lacuna normativa: chi viene in Italia lo fa con l’obiettivo di cercare lavoro; ma per ottenere il permesso di soggiorno bisogna sostanzialmente già averlo (cioè bisogna essere già stati chiamati da un datore di lavoro in Italia, entro un numero chiuso fissato dalle quote di ingresso).
Come si faccia ad ottenere un lavoro in Italia senza starci varia – in teoria – da paese a paese di provenienza, e da decreto sui flussi a decreto sui flussi; cosa succedea delle domande in esubero rispetto alle quote prefissate non è chiaro.
Quello che è chiaro è che, all’interno dei confini statali, per chi non ha una cittadinanza dell’Unione europeacercare un lavoro regolare è impossibile, a meno di non commettere un illecito. Tanto più che, con l’eventuale introduzione del reato di immigrazione clandestina, centinaia di migliaia di persone si troveranno in una condizione penalmente rilevante con la semplice presenza in vita: cioè, non potranno non commettere (o meglio: non potranno non aver già commesso) il nuovo reato previsto.
Naturalmente si parla della presenza dentro i confini dello Stato sia senza permesso, sia in attesa del permesso, sia in attesa nelle quote d’ingresso. Il che risponde a una logica tutto sommato coerente: ad esempio: se una donna intende registrare il proprio neonato all’anagrafe, si espone al rischio (forse alla certezza, si tratta però di questioni su cui la stampa fornisce informazioni imprecise) di ricevere un provvedimento d’ espulsione. Il che significa che quello che può fare senza conseguenze legali è abortire.
In questo modo, attraverso la produzione e il mantenimento di una lacuna normativa, viene costituito, all’interno del paese e in piena consapevolezza, un gruppo di soggetti cui, per la loro origine, è impossibile accedere alla totalità dei diritti.
Cioè un’area predisposta all’espulsione, che non casualmente, nei discorsi della stampa periodica, viene avvertita come contigua alle minoranze linguistiche zingare.
Ecco perchè il termine “neorazzismo” appare sensato. Non indica una qualche derivazione dalle pretestuose teorie otto-novecentesche sull’identità razziale: se l’affermazione di tesi esplicitamente “razziste” in senso biologico tornava in diversi segmenti specifici della lunga strada verso la Shoah, e l’ha caratterizzata nominalmente in questo segmento terminale, il discorso era assai più esteso e ramificato.
Ed è proprio a quel percorso che i nuovi progetti discriminatori appaiono legarsi (e in molti casi in piena consapevolezza): riprendendo, semplicemente, da uno o più chilometri prima della fine, nella certezza che vi sia un qualche bivio prima dell’ultimo tratto, e che porti altrove. Cosa che non può non essere vera, nell’infinita varietà dei gironi.