Tu chiamale se vuoi elezioni. Al voto Haiti devastata dal terremoto, dall’urugano e dal colera

di Claudia Fanti

Secondo i dati preliminari diffusi dagli osservatori Onu, il primo turno delle elezioni haitiane “al tempo del colera”, il 28 novembre scorso, avrebbe riservato una grossa sorpresa (per conoscere i risultati ufficiali bisognerà attendere ancora diversi giorni): la rabbia degli haitiani contro il governo avrebbe avuto la meglio sui brogli denunciati da ogni parte, escludendo dal ballottaggio del prossimo 16 gennaio il candidato scelto dal presidente uscente René Prevàl, il 48enne Jude Célestin, fermo ad appena il 12% dei voti, malgrado il controllo da lui esercitato su tutta la macchina elettorale. Al ballottaggio andranno, a quanto pare, il cantante di kompa (un tipico ritmo haitiano) e idolo dei giovani Michel Martelly, noto come “Sweet Mickey”, primo con circa il 39% dei voti, e Mirlande Manigat, 70 anni, moglie del primo presidente del dopo-Duvalier, Leslie Manigat (poi rovesciato da un colpo di Stato), seconda con il 31%. Assenti dalla competizione elettorale per non oscuri “vizi di forma” il partito di Jean Bertand Aristide (l’ancora popolarissimo ex presidente in esilio in Sudafrica) e il rapper Wycleff Jean, dato dai sondaggi come uno dei grandi favoriti.

Una farsa “cinica e criminale”

Che vi siano state pesanti irregolarità a favore di Célestin lo ha rilevato anche la missione congiunta dell’Organizzazione degli Stati americani (Oea) e della Comunità dei Paesi caraibici (Caricom), che pure ha riconosciuto il risultato delle elezioni, peraltro convalidate dal Consiglio Elettorale. E lo stesso giorno della votazione, prima dell’inizio dello spoglio, lo avevano denunciato a gran voce, chiedendo che le elezioni fossero annullate, ben 12 dei 19 candidati presidenziali, compresi Martelly e Managat (i quali poi, di fronte ai primi dati, hanno notevolmente ammorbidito i toni della protesta). Ancor prima del 28 novembre, del resto, le organizzazioni sociali avevano parlato delle elezioni come di una “farsa cinica e criminale”, secondo le parole usate da Henry Boisrolin, coordinatore del Comité Democrático Haitiano: “Dopo un terremoto che si è concluso con un bilancio di 300mila vittime e un milione e mezzo di sopravvissuti in condizioni disumane, molti dei quali impossibilitati a votare per mancanza dei documenti necessari”, ha denunciato Boisrolin al Correo del Orinoco, “la possibilità di un esercizio pieno della sovranità del popolo haitiano è di fatto da escludere”. Oltretutto, ha aggiunto, il governo ha speso 29 milioni di dollari per organizzare le elezioni, mentre nel Paese imperversa un’epidemia di colera che è costata la vita già ad oltre 2mila persone. “Nessun haitiano e haitiana cosciente – ha concluso – può aspettarsi qualcosa di positivo da questa farsa”, tanto più che nessuno dei 19 candidati presidenziali ha denunciato con la forza necessaria l’occupazione del Paese da parte della Minustah, la Missione di Stabilizzazione delle Nazioni Unite ad Haiti.

Del resto, la crisi istituzionale in cui si trova il Paese difficilmente troverà soluzione con le elezioni. A gennaio il Parlamento ha approvato una Legge di Emergenza che ha concesso enormi poteri alla Comisión Interina de Recuperación de Haití, controllata dall’ex presidente Usa Bill Clinton e dai rappresentanti dei Paesi donatori, a cui spetterà il compito di portare avanti il Piano di Sviluppo per Haiti perlomeno fino all’agosto del 2011. Come sottolinea all’Ips (29/11) il docente dell’Università di Virginia Robert Fatton, il peso della Commissione e la molteplice presenza di agenzie, consultori e donatori stranieri determinano una “perdita virtuale di sovranità” nel Paese: “Non è chiaro – ha evidenziato – come potrà funzionare un Parlamento uscito dalle urne in un ambiente dominato dalla Commissione internazionale”.

Sotto accusa i caschi blu

Nel frattempo cresce l’ostilità della popolazione nei confronti dei soldati della Minustah, ritenuti oltretutto colpevoli di aver portato il colera ad Haiti. I sospetti cadono sul contingente di soldati proveniente dal Nepal (dove il colera è endemico), giunto nell’isola ai primi di ottobre e schierato a pochi chilometri da Saint Marc, sui margini del fiume Artibonite, dove i soldati avrebbero scaricato i propri escrementi infetti. Accusa negata dalla Minustah, secondo cui nessun caso di colera sarebbe stato riscontrato tra i caschi blu nepalesi.

È un fatto, tuttavia, che fino all’inizio di ottobre nessuna traccia di colera era stata registrata in territorio haitiano: è solo a partire dal 20 ottobre che decine di persone sono state ricoverate a Saint Marc per febbre alta e diarrea. “Chiediamo alla Minustah che solleciti l’apertura di un’inchiesta da parte di un organismo indipendente”, ha affermato la senatrice Edmonde Suplice Beauzile. Il tutto proprio nel momento in cui il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha deciso, nella riunione del 15 ottobre, di estendere per un altro anno il mandato della Minustah, creata nel 2004 per far fronte alle mobilitazioni popolari successive alla caduta dell’allora presidente Aristide. Da allora, come denuncia Thalles Gomes (Brasil de Fato, 18-24/11), membro della Brigata Dessalines di solidarietà al popolo haitiano promossa da Via Campesina Brasile insieme ad organizzazioni contadine di Haiti, non si contano più le denunce di tortura, stupro e assassinio a carico dei soldati delle Nazioni Unite. E a dieci mesi dal terremoto che il 12 gennaio ha devastato il Paese, i caschi blu non hanno mosso un dito per togliere le macerie (di cui è stato rimosso solo il 2%) e ricostruire le case di Port-au-Prince, la capitale ridotta, come sottolinea Jon K. Andrus dell’Organizzazione Pan-Americana di Salute, a “un’immensa favela”, le cui drammatiche condizioni igieniche sono “perfette per una rapida propagazione del colera”. Né i caschi blu hanno saputo far fronte al moltiplicarsi di casi di violenza sessuale, oltre all’aumento di furti, rapine a mano armata e omicidi che si registra in tutto il territorio nazionale.

Una fonte inesauribile di guadagno

Ma siccome al peggio non c’è davvero fine, ci si è messo pure l’uragano Tomas a infierire sul Paese, il 5 novembre, uccidendo 21 persone e lasciando 6.000 famiglie senza riparo, oltre a distruggere fino al 70% di coltivazioni di banane, mais e fagioli, la base dell’alimentazione locale. Un’agricoltura, quella hatiana, già duramente compromessa dalla riduzione delle barriere commerciali richiesta dal Fmi in cambio del prestito concesso al Paese dopo la fuga del dittatore Jean Claude Duvalier (il quale, lasciando Haiti, aveva pensato bene di ripulire le casse dello Stato), con la conseguenza che il riso locale è stato sbaragliato da quello statunitense, fortemente sussidiato e quindi molto più economico. Come se non bastasse, spiega José Luis Patrola, coordinatore della Brigada Dessalines, l’impatto di ogni uragano o ciclone su Haiti è amplificato dal “grave problema di deforestazione” di cui soffre il Paese, dove più del 95% delle foreste originarie è andato distrutto, e dove la principale fonte di energia, in assenza dell’elettricità, è ancora il carbone di legna.

Del resto, sottolinea ancora Thalles Gomes, l’attuale epidemia di colera, i danni provocati dall’uragano Tomas e la devastazione lasciata dal terremoto del 12 gennaio non sono altro che “conseguenze dei gravi problemi strutturali che mantengono la nazione più povera del continente americano in uno stato di vulnerabilità permanente”. Non affrontando le cause, ma limitandosi solo ad alleviare gli effetti, prosegue Gomes, lo Stato haitiano e la comunità internazionale trasformano anzi “le catastrofi naturali e la miseria in una fonte inesauribile di guadagni: ai 163,9 milioni di dollari richiesti dall’Onu per combattere l’epidemia di colera bisogna aggiungere i 126 milioni che l’Usaid (Agenzia Usa per lo sviluppo internazionale) sta investendo ad Haiti, i 9,9 miliardi di dollari promessi da Clinton e dai Paesi donatori per la ricostruzione del Paese post-terremoto, i 3,6 miliardi spesi per mantenere i soldati della Minustah nel Paese e i 7,5 milioni di dollari che servono per garantire i bagni chimici ai terremotati di Port-au-Prince. Con il paradosso che il Paese più povero delle Americhe è anche il maggior destinatario degli aiuti internazionali”.

(articolo tratto da “Adista notizie”, n.95 dell’11 dicembre 2010)

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