Tregua e “uscita dignitosa” per Gheddafi. Intervista al Vescovo di Tripoli

Tripoli, Libyadi Eletta Cucuzza

È venuta dalla Lega, con la sua mozione sulla Libia, infine accettata quasi integralmente dal Pdl, pena la dissoluzione della maggioranza governativa, la sollecitazione ad «una forte azione politica» per la soluzione della guerra in atto. Nella prospettiva pacifista, è questo – e solo questo, in quanto riattivazione del ricorso ad una via diplomatica – un punto a favore del partito di Bossi. La Lega ha ceduto però su un’altra richiesta cruciale della sua mozione: una data certa per la fine dei bombardamenti italiani, ottenendo solo l’accettazione di un «termine temporale» da concordarsi con gli altri “volenterosi” della Nato. Che infatti ci ha messo il tempo di un amen per rispondere che «la missione durerà il tempo necessario». E il sì alla missione comprende ormai l’uso – come si legge in una nota della Presidenza del Consiglio del 24 aprile – dei velivoli italiani «con azioni mirate contro specifici obiettivi militari selezionati sul territorio libico, nell’intento di contribuire a proteggere la popolazione civile libica».

Sull’efficacia delle bombe al fine di proteggere «la popolazione civile» ha tutto da obiettare il vescovo (vicario apostolico) di Tripoli, mons. Giovanni Innocenzo Martinelli. Nell’intervista che ci ha rilasciato il 3 maggio, e che pubblichiamo di seguito, Martinelli – francescano, italiano e libico, a Tripoli come sacerdote dal 1971 e vescovo dal 1985 – lancia un ulteriore appello perché si ponga fine all’uso delle armi, per una tregua come «atto di pietà» verso i civili e come chance per l’avvio di un dialogo fra le due fazioni in lotta sul territorio, quella pro-Gheddafi e quella a lui ribelle. Ma chiede, unico a quanto risulta, che la «transizione» verso un nuovo ordinamento politico avvenga nel rispetto di coloro che, negli ultimi decenni, si sono assunti la responsabilità di condurre la nazione. Bisogna cioè fare in modo che il leader libico possa «cedere senza offendere i diritti della sua parte».

Fondamentale, a tal fine, che si smetta di bombardare. «Gradirei» che ci fosse in questo senso una instancabile «insistenza», afferma, anche da parte delle gerarchie ecclesiastiche, che, se hanno espresso in varie forme solidarietà alla Chiesa di Tripoli, dovrebbero replicare appelli per la cessazione dei bombardamenti (che talvolta sono stati letti come “intervento umanitario” nei confronti della popolazione della Cirenaica martoriata da Gheddafi). Fra gli appelli già ascoltati, ricordiamo quelli di Benedetto XVI e l’auspicio del presidente dei vescovi italiani, card. Bagnasco, nella prolusione all’ultimo Consiglio permanente della Cei, il 28 marzo: «Ad intervento ampiamente avviato, auspichiamo che si fermino le armi». Non si è registrato finora un commento della Cei sui bombardamenti italiani.

Netto, e negativo, il giudizio di mons. Martinelli sul governo italiano, che avrebbe potuto facilitare un dialogo invece che accodarsi alla decisione interventista francese.

L’intensificarsi del ruolo dell’esercito italiano nel conflitto libico con il lancio di missili rappresenta l’allargamento di una guerra che, in quanto tale, era già discutibile in partenza. In questa prospettiva, mons. Martinelli, la speranza di una soluzione e di una conclusione del conflitto si allontana?

Certo, anche perché l’Italia, che era la più decisa inizialmente a creare dei ponti con la Libia, in realtà ha tradito sfacciatamente senza provvedere a un dialogo, che era possibile, con le autorità. La Francia si è buttata e l’Italia l’ha seguita. Quindi all’Italia rimprovero, se posso osare questo coraggio, di non aver cercato, insieme ad altri, altre vie per tentare di tenere sotto controllo la situazione. E ora sì, i tempi rischiano di allungarsi eccome, specialmente se si continua a bombardare. Mi auguro che ci sia uno stop, come il papa ha chiesto con il suo doppio messaggio sulla Libia, una tregua innanzitutto per dare un po’ di pace alla popolazione che è stordita dai bombardamenti e dai passaggi continui degli aerei tutta la notte e tutte le notti e che veramente scuotono il sistema nervoso. Sarebbe un reale atto di pietà verso la popolazione civile. Non mi dicano poi che sono interventi che colpiscono solo i siti militari, perché anche i civili sono là, coinvolti in tutti i sensi: le bombe uccidono anche i civili, e questo è dimostrato.

Stupisce molto il silenzio dell’opposizione a questa guerra a livello di comunità internazionale, ma non si sente granché neanche a livello di gerarchia ecclesiale – italiana e non solo – con l’eccezione dei vescovi della Conferenza regionale del Nord Africa e del papa che hanno fatto appelli per una soluzione diplomatica del conflitto. Come mai questo silenzio?

Silenzio fino a un certo punto, perché, ad esempio, il presidente dei vescovi italiani, card. Bagnasco, mi ha dimostrato tutta la sua solidarietà, ma gradirei che ci fosse maggiore insistenza, questo sì. Gradirei che ci fossero altri aperti interventi. Fossi in loro, non mi stancherei di parlare, perché si tratta di diritti umani, di pace, perché bisogna ottenere uno stop: non si può tentare il dialogo sotto le bombe. Dovreste spingere le istituzioni civili, ecclesiali, culturali verso una tregua. So che attualmente la Lega sta operando a suo modo in questo senso. Ecco, io busso a tutte le porte perché la tregua, e dunque il dialogo, abbia una possibilità.

La Conferenza regionale del Nord Africa, alla luce dei recenti sviluppi e dell’aggravarsi della situazione, prevede di lanciare un nuovo richiamo alle forze in campo o/e un appello al papa affinché faccia sentire la propria voce in modo ancora più deciso?

È possibile, sì, che ciò avvenga.

C’è un’attività diplomatica vaticana in essere, malgrado le difficoltà anche pratiche dovute alla guerra?

Sì. Il nunzio a Malta e in Libia, mons. Tommaso Caputo, in quotidiano contatto con tutte le autorità interessate, sta facendo molto. Ferve una fitta comunicazione fra la nunziatura e la Santa Sede, dove non secondario è il ruolo dell’agenzia Fides perché trasmette tutte le notizie che ci riguardano.

A noi la voce della popolazione libica giunge divisa, forse equamente divisa fra sostenitori di Gheddafi e ribelli sostenitori della “coalizione dei volenterosi”. Ma è così? C’è una posizione terza? E qual è la posizione maggioritaria fra i cattolici libici?

Be’, non ci sono cristiani libici (ci sono cattolici di altre nazionalità, poco oltre 100mila). La popolazione è divisa, fra Bengasi e Tripoli. Questa divisione è un’angoscia tremenda per un Paese che dovrebbe e potrebbe con il dialogo cercare l’unità. Purtroppo sia la parte che sostiene Gheddafi, sia la parte avversa sembrano molto chiuse. Penso che occorra ricercare un equilibrio per una mediazione che sia capace di far accettare un cammino di riconciliazione, anche se non facile. Alcuni dicono di non volere più la famiglia di Gheddafi. Ma non si può eliminare tutto in una volta: bisogna dar vita invece ad una transizione, nel rispetto però delle persone, nel rispetto di una storia e di una rivoluzione economica di quasi cinquant’anni che le coinvolge, di cui si sentono ancora responsabili, persone che vorrebbero poter finire in forma dignitosa. È normale che sia così. Ma allora, come fare in modo che Gheddafi possa cedere, nella transizione, senza offendere i diritti della sua parte? Penso che questa sia una sfida importante anche se difficile.

Sfida in cui lei crede.

Non c’è altra forma possibile. Purtroppo i suoi sono ancora molto fedeli e molto forti. Gheddafi non può dire loro “vi mando via” o “vi metto sotto quest’altro”. È inimmaginabile. Servirebbe, in un periodo di transizione, discutere della possibilità di una riunificazione e quindi anche dei diritti di una parte e dell’altra, vagliare le possibilità di incontro. Purtroppo sia da una parte che dall’altra è stata usata troppa forza, quindi si sono procurate ferite che non è facile risanare.

Lei ha una cifra dei civili morti a Tripoli a causa dell’intervento Nato?

Una cifra precisa no. Posso dire che sono tanti, sia per la risonanza delle bombe sia perché i siti militari sono vicini alle abitazioni civili. Decine e decine di civili sono morti, tanti. Anche il figlio di Gheddafi, Saif al-Arab, era un civile e con lui il 30 aprile sono morti tre bambini. Civili o no?

Fra le altre cose, abbiamo sentito del sospetto che Gheddafi disseppellisca morti recenti per mostrarli come vittime dei bombardamenti dei “volenterosi”?

Ma come si possono tirar fuori queste storie? Come si può affrontare tutto nella permalosità e tutto giudicare in negativo? I morti ci sono stati e ci sono, come ci sono le bombe e gli aerei che bombardano. Non lo si può nascondere. Venite qui, la sera, la notte, a vedere e a sentire come le bombe fanno diventare matti. Basta una sola notte. Hanno anche negato che fosse stato ucciso il figlio di Gheddafi. Com’è possibile pensare ad una simile messa in scena da parte di una famiglia? Mi hanno chiesto come prova: «Hai visto la sua faccia?». Ma cosa si può vedere nella faccia di un uomo, poverino, tutto maciullato!? La sua casa è stata penetrata da tre missili. Una cosa è chiara: la Nato vuole nascondere la mano per non dire che colpisce i civili di Tripoli, che ci vanno necessariamente di mezzo.

La cattura e morte di Bin Laden può in qualche modo influire sull’evoluzione del conflitto libico?

Chiaramente Gheddafi non era un Bin Laden. Gheddafi è contro il terrorismo e contro il fondamentalismo. Certamente se l’Europa continua a gettare bombe si ritroverà ad avere, tanto più ora in Italia, terroristi che non si aspettava, e decisamente tanti immigrati, come state già vedendo. Immigrati che non vengono dalla Libia, ma dall’Africa direttamente, fatti caricare sulle barche verso l’Europa.

Lei legge questa trasmigrazione sulle nostre coste come una strategia di rivalsa messa in atto da Gheddafi?

In pratica, qualcosa come: “E noi vi tiriamo le bombe che possiamo».

(“Adista Notizie”, n.37 del 14 maggio 2011)

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