Scoprire l’America
L’incanaglirsi della vita politica italiana, con la grande epifania della corruzione, con il governo impietoso dalle “misure brutali”, con il demiurgo lombardo e le primarie interpretate dallo sfidante come un gioco al massacro, ha fatto scomparire l’America. Le televisioni, che dovrebbero guardare in grande, al massimo spingono gli occhi sull’Europa per dirci che cosa ancora ci chiede¸ i giornali si riempiono dell’abbandono di Veltroni, della resistenza di D’Alema, di Renzi che va in autobus e Grillo che va a nuoto; e l’opinione pubblica, sempre meno informata e educata a capire come vanno le cose, precipita sempre più nel provincialismo culturale e nel qualunquismo politico. Nessuno si ricorda che c’è una realtà globale in fermento, che si rischia la guerra tra Israele e Iran, che la Palestina è disperata, che l’Africa è sempre percossa da flagelli e da conflitti tribali, e che in questi giorni si gioca negli Stati Uniti il destino del mondo. Infatti l’elezione del presidente americano è una sentenza per il mondo; e allora sarebbe bene che tornassimo a scoprire l’America, per decidere poi che cosa dobbiamo essere e che cosa dobbiamo fare noi, Italia ed Europa.
Non sappiamo se Obama sarà rieletto. Credere che dipenda da come egli abbia alzato o abbassato gli occhi nei dibattiti televisivi o da come Romney sia stato lesto nell’attaccarlo e povero nel rispondergli, è una ingenuità che appartiene alla politica dello spettacolo. Per la politica reale invece è più importante capire se la comunità ebraica continuerà a fidarsi di lui riguardo a Israele, e se i vescovi cattolici lo vorranno punire per aver osato con la questione dell’aborto mettere a repentaglio, secondo loro, la “libertà religiosa”. Ma poi decisivi, naturalmente, saranno tutti i cittadini con i loro bisogni, i loro calvari e le loro speranze.
Certo il rischio è grosso. Non solo per il mondo, ma per l’America stessa. In un Paese dove sempre maggiore è il divario tra ricchi e poveri, finanzieri e non-capienti, sarebbe una tragedia che venissero definitivamente chiuse le porte a una politica sociale; in un Paese dove si possono andare a comprare le armi al drugstore e sparare come si vuole, è molto importante il messaggio culturale morale e politico che viene dalla Casa Bianca. Ma per il mondo la posta è ancora maggiore, perché la forbice della miseria e della fame dei popoli si è ulteriormente allargata con l’arrembaggio della globalizzazione, e le armi pronte a sparare sono quelle di distruzione di massa.
Solo da poco, con la fine dell’era Bush e del sogno perverso del “nuovo secolo americano”, gli Stati Uniti hanno cessato di essere un pericolo per il mondo, un fattore di instabilità generale e una minaccia di guerra perpetua, cose che a suo tempo furono oggetto di ripetute analisi su Rocca. Obama ha spezzato questa linea, anche se non ha avuto la forza di intraprendere la via opposta, cioè di essere garanzia di sicurezza, fattore di stabilità e viatico alla pace. Le rovine della vecchia gestione sono rimaste, dall’Iraq all’Afghanistan a Guantanamo; la guerra è tornata con la Libia anche se con gli Stati Uniti in posizione defilata; l’abbandono del popolo palestinese non ha avuto attenuazioni. Tuttavia il clima è cambiato, e con l’esplosione della questione economica la comunità internazionale è stata posta di fronte al vero problema: come riprendere la strada della costruzione di una società democratica delle nazioni, il cui fine sia la giustizia e la pace, e in cui l’economia non sia sottratta a ogni regola, il capitale finanziario non sia il sovrano assoluto e possa essere fatta salva la terra.
Si tratta di tornare ai principi fondamentali del nuovo costituzionalismo e alle regole internazionali dell’economia che, dopo la catastrofe della seconda guerra mondiale, i popoli che avevano imparato da ciò che avevano sofferto convennero di adottare per delegittimare gli imperi, attuare la decolonizzazione e dare avvio ad una fase di ricostruzione e di sviluppo su base planetaria. Quel progetto di nuovo ordine mondiale precipitò nella guerra fredda, e in Occidente fu intercettato e rovesciato con la rottura degli accordi di Bretton Woods, con il divorzio del dollaro dall’oro, con l’anarchia dei cambi, con la riforma del GATT e la liberalizzazione mondiale dei commerci, con la deregulation delle politiche thatcheriane e reaganiane, per non parlare del rigorismo liberista dei Trattati europei e della loro allegra traduzione italiana.
Gli esiti cui siamo giunti dimostrano come tutto questo vada rimesso in discussione. Il problema non sta solo in Europa, non è nei suoi confini che si possono trovare nuove regole, nuovi vincoli, nuove garanzie, nuovi incentivi, nuovi orizzonti per un’economia di liberazione e una democrazia realizzata. Lo spazio è quello globale. L’America avrà un ruolo cruciale in questo processo, ma questo ruolo sarà di segno opposto se a guidarla sarà Obama o sarà Romney. Per questo sarà bene che ce ne accorgiamo, che torniamo a scoprire l’America.
(“Rocca”, n.21 del 2012)