Non abbiamo speranza al di fuori della nostra terra. Intervista a Leita Rocha
Tra i tanti leader indigeni venuti a Roma per il Sinodo sull’Amazzonia, durante il quale hanno potuto far conoscere la situazione dei rispettivi popoli, denunciando invasioni, violenze ed abusi, Leila Rocha, leader del popolo Guarani Nhandeva nel Mato Grosso do Sul, ha lasciato sicuramente un segno tra chi, da Trento a Roma, ha avuto l’occasione di incontrarla durante la sua permanenza in Italia. Rappresentante del Consiglio Aty Guasu (la Grande Assemblea generale dei Guarani Kaiowá) e della Kuñague Aty Guasu (la Grande Assemblea delle donne Kaiowá e Guarani), Leila Rocha ha portato in Italia la tragedia di cui è vittima il suo popolo.
È da decenni, infatti che, nello Stato brasiliano del Mato Grosso do Sul, i Guarani Kaiowá – una delle tre etnie guarani presenti in Brasile – lottano per fare ritorno nelle terre dalle quali furono espulsi, oggi deforestate e invase dai latifondisti. Un destino comune ai popoli originari del Brasile, dove i tentativi di annientare le comunità tradizionali sono stati nel corso del tempo molteplici e ripetuti e dove sono ancora 821, su 1.290, le terre indigene ancora in attesa che si concluda il processo di demarcazione (un processo che avrebbe dovuto essere portato a termine entro 5 anni dalla promulgazione della Costituzione brasiliana del 1988).
Ed è un destino che non fa che peggiorare: come evidenzia il Rapporto del Cimi (il Consiglio indigenista missionario vincolato alla Conferenza dei vescovi) sulla Violenza contro i popoli indigeni brasiliani relativamente ai dati del 2018, lo scorso anno sono stati registrati 111 casi di invasione, sfruttamento illegale di risorse naturali e danni al patrimonio in 76 aree indigene, rispetto ai 96 dell’anno precedente e – ancor peggio – ai 160 registrati solo nei primi nove mesi del 2019 in 153 terre ancestrali.
E non solo: se prima gli invasori – fazendeiros, garimpeiros, madereiros – entravano nelle terre tradizionali e, dopo averle saccheggiate, andavano via, ora, evidenzia il rapporto, in molte regioni essi vengono per rimanere, arrivando persino a dividere i territori ancestrali in lotti e a venderli.
Sono aumentati anche i casi di omicidio, saliti dai 110 del 2017 ai 135 del 2018 (tra cui 62 in Roraima e 38 in Mato Grosso do Sul). A cui bisogna aggiungere 101 suicidi, in massima parte commessi nel Mato Grosso do Sul (44, rispetto ai 31 del 2017) e in Amazonas (36). Mentre i casi di mortalità infantile (da 0 a 5 anni) sarebbero – ma i dati sono parziali – 591, di cui 219 in Amazonas, 76 in Roraima e 60 in Mato Grosso.
Se poi la guerra ai popoli indigeni del Brasile va avanti praticamente da sempre, l’attacco a cui oggi sono esposti sotto il governo Bolsonaro è sicuramente il più duro dal ritorno della democrazia. Un attacco iniziato addirittura in campagna elettorale, quando Bolsonaro aveva promesso che «nemmeno un centimetro quadrato in più» sarebbe andato ai popoli indigeni e che, ancora pochi giorni prima dell’insediamento, aveva auspicato addirittura una revisione della demarcazione “simbolo” dell’area indigena Raposa Serra do Sol, omologata nel 2005 dal presidente Lula dopo una più che trentennale lotta dei popoli originari contro politici, militari, latifondisti e cercatori d’oro, e ancora rimessa in discussione da una lunga serie di ricorsi, finché il Supremo Tribunale Federale non si era pronunciato, nel 2009 e ancora nel 2013, a favore della legittimità costituzionale del suo riconoscimento.
Per i popoli originari e i loro numerosi alleati, è lo stesso presidente, insomma, ad avere le mani sporche di sangue, incoraggiando invasioni e violenze non solo con commenti razzisti nei confronti degli indigeni – definiti «preistorici» –, ma anche con le insistenti critiche ai processi di demarcazione, che, a suo avviso, sarebbero di intralcio allo sviluppo economico, e con l’aperta difesa dello sfruttamento minerario in aree indigene, benché espressamente proibito dalla Costituzione.
Bolsonaro, il «peggior nemico» dei popoli indigeni secondo il Coiab, il Coordinamento delle organizzazioni indigene dell’Amazzonia brasiliana, è accusato, insomma, di dare carta bianca agli invasori: «Quando in una regione c’è un conflitto», ha spiegato a nome del coordinamento Kleber Karipuna, garimpeiros, madeireiros e ruralisti «leggono il suo discorso come un via libera a intervenire in ogni modo possibile per sfruttare il territorio, anche a uccidere, se necessario», ispirati come sono dalla ben nota passione presidenziale per le armi. Esattamente ciò che sostiene il Cimi, secondo cui «i discorsi aggressivi e pieni di odio di Bolsonaro e di altri rappresentanti del suo governo servono da combustibile per le invasioni, per il saccheggio territoriale e per le azioni violente contro i popoli originari».
Preoccupa, in particolar modo, la tesi del “quadro temporale”, secondo cui avrebbero diritto alla terra solo gli indigeni in grado di dimostrare la loro presenza nell’area rivendicata alla data di promulgazione della Costituzione, il 5 ottobre del 1988, come cioè se tutto il processo di espulsioni violente e di massacri realizzato durante il regime militare non avesse mai avuto luogo. Una tesi sostenuta con forza dalla bancada ruralista (come viene chiamato, al Congresso, il gruppo di potere dei latifondisti e dei grandi imprenditori del settore alimentare e agrochimico) e subito fatta propria già dal governo di Michel Temer per mezzo di un Parere vincolante della Advocacia Geral da União, la cui conseguenza è stata non solo la completa paralisi del processo di demarcazione delle aree indigene, ma anche l’annullamento di quelle già realizzate.
È questa situazione, di giorno in giorno più drammatica, che si riflette nelle parole di Leila Rocha e nel suo grido di dolore, che abbiamo raccolto nell’intervista che riportiamo di seguito.
Cosa ha significato per te il Sinodo per l’Amazzonia?
È stato un’occasione per chiedere aiuto, perché in Brasile abbiamo combattuto tanto, ma la nostra lotta non ha prodotto alcun risultato. Sono stata molto felice di questo invito, anche perché ho potuto avvicinarmi al papa, prendergli la mano e chiedergli di benedire il mio popolo in Mato Grosso do Sul, perché tutto è molto difficile per noi. Abbiamo bisogno dell’aiuto di altri popoli, perché non vogliamo più veder soffrire il nostro. Non vogliamo che ci siano altri morti.
Qual è ora la situazione nel Mato Grosso do Sul?
È molto grave. I fazendeiros hanno invaso le nostre terre tradizionali, piantando soia, canna da zucchero, grano. Su di noi incombe la minaccia dell’approvazione della Pec 215 (la Proposta di emendamento costituzionale mirata a trasferire al Congresso il diritto di demarcare le terre indigene, ndr), della legge per l’affitto delle aree indigene (la Pec 187, che darebbe il via libera all’affitto delle terre tradizionali per l’allevamento del bestiame e la coltivazione di soia, canna da zucchero, eucalipto, ndr), della tesi del “quadro temporale”, che in Mato Grosso do Sul viene utilizzata per cacciare gli indigeni dalle loro terre tradizionali e per frenare il processo di demarcazione. Vi sono addirittura territori la cui demarcazione è stata annullata proprio in base alla tesi del marco temporal. La mia terra, alla frontiera con il Paraguay, è stata demarcata nel 2005 ma non è stata ancora omologata e tutto il processo è fermo. E ora non viene più riconosciuta come un’area indigena.
Le condizioni sono peggiorate sotto il governo Bolsonaro?
Per noi non è mai stato facile, ma con questo governo la situazione è diventata ancora più grave. Bolsonaro non vuole sapere nulla degli indigeni. Prima ricevevamo almeno il sostegno della Funai (Fondazione nazionale dell’indio, l’organo indigenista ufficiale dello Stato brasiliano, ndr), ma ora Bolsonaro ha rimosso tutto il personale che ci appoggiava. Non abbiamo più nemmeno un medico, essendo stato il personale sanitario trasferito in un municipio a sessanta chilometri di distanza. E non possiamo nemmeno più contare sulle nostre medicine tradizionali, perché i fazendeiros hanno distrutto tutto. E così muoiono moltissimi bambini e neonati.
Cosa rappresenta la terra per il vostro popolo?
La terra è una madre che si prende cura di noi, come noi ci prendiamo cura di essa. Ma ora la foresta viene abbattuta e i fiumi sono contaminati. I pesticidi irrorati dagli aerei cadono nelle nostre comunità, dove i bambini soffrono di vomito, mal di testa e dissenteria. Non abbiamo più nulla. E non abbiamo speranze al di fuori della nostra terra. Non possiamo andare da un’altra parte, non possiamo andare in città. Noi non siamo fatti per la città. Sono già 25 anni che lottiamo per la nostra terra. Siamo stati espulsi e siamo tornati, siamo stati espulsi di nuovo e siamo tornati di nuovo. Dopo lo sgombero che abbiamo sofferto nel 2003 abbiamo dovuto aspettare 10 anni. È da sei 6 anni che stiamo lì. Ma la terra è invasa dai bianchi, secondo i quali saremmo noi gli invasori. I veri invasori, i fazendeiros, coltivano e allevano il bestiame, mentre noi non abbiamo più nulla. Eppure la terra è nostra, per questo siamo tornati. Se non appartenesse a noi, non vi avremmo mai fatto ritorno. Noi la conosciamo bene, perché è la terra in cui riposano i nostri antenati. Quella terra è nostra, è lì che vogliamo vivere con i nostri bambini, con la nostra famiglia. È lì che vogliamo piantare, raccogliere i prodotti della foresta e vivere senza preoccupazioni.
L’ultimo rapporto del Cimi evidenzia anche livelli crescenti di violenza…
Dal 1983 sono stati uccisi almeno 360 leader indigeni. Quell’anno è stato assassinato il nostro grande leader Marçal de Souza. Da allora non si sono più fermati. A volte il corpo delle vittime non viene nemmeno ritrovato, come nel caso dell’omicidio, nel 2011, di Nísio Gomes: gli assassini gli hanno sparato davanti agli occhi del figlio e si sono portati via il corpo. Come pure non è stato mai ritrovato quello del professore Rolindo Vera, ucciso insieme al fratello Genivaldo, anche lui professore, in un attacco dei pistoleiros. In Mato Grosso do Sul i nostri leader vengono uccisi e i responsabili non vengono mai arrestati e puniti.
(Adista documenti, n. 39 del 16 novembre 2019)