L’Olanda alle elezioni.Le ragioni dei socialisti anti-austerità
Il 12 settembre i Paesi Bassi affrontano le elezioni politiche generali. Qui nessuno discute l’euro, ma cresce una certa insoddisfazione verso l’Europa. La crisi come colpa alla periferia che «ha vissuto al di sopra dei propri mezzi» fa parte del discorso politico dell’intero arco dei partiti in lizza, anche se con moltissime sfumature.
Quando a Bruxelles si affrontano i dossier decisivi, quelli sull’economia, l’Olanda si schiera sempre con Germania, Austria e Finlandia. Il governo conservatore uscente – guidato dal leader del Vvd (Partito Liberale) Mark Rutte e con l’appoggio esterno del leader populista Geert Wilders – ha avuto un ruolo marginale in questa scelta di campo. «Il posizionamento riflette questioni più strutturali, come la dipendenza dall’economia tedesca e il tradizionale ruolo di ri-esportatrice giocato dai Paesi Bassi», dichiara Henk Overbeek, professore di Relazioni Internazionali alla Vu University di Amsterdam. «Sempre che non si modifichino in modo radicale gli equilibri, per esempio confermandosi il trend di debolezza elettorale della Merkel con un ritorno in auge dell’Spd in Germania, non ci sono grosse probabilità che le scelte internazionali dell’Olanda cambino a seguito delle imminenti elezioni».
Nel momento della crisi, l’ortodossia olandese si è riflettuta in politiche espansive a breve termine, relativamente efficaci nel contrastare la caduta del reddito, ma in una austerity di lungo periodo che sta minando il potenziale di crescita. La crescita ritrovata nel 2010 e 2011 non ha ancora riportato il Pil al livello pre-crisi (la caduta nel 2009, secondo l’ufficio di statistica olandese, è stato del 3,5%).
In effetti, i segnali di squilibrio ci sono: la spesa totale per ricerca e sviluppo si è ormai stabilizzata attorno all’1,8% del Pil (dati Eurostat), un lento e inesorabile processo di decremento dal 2% degli anni Novanta e certo molto lontano dall’obiettivo del 3% della famosa agenda di Lisbona. «Gli attuali dati congiunturali positivi» (l’ultimo dato trimestrale del Pil era superiore alle attese) «stanno nascondendo un processo di indebolimento strutturale dell’economia olandese», sottolinea Overbeek. In effetti, la spesa in educazione si è stabilizzata dal 2008 (con le manovre di austerity) e nel decennio precedente l’incremento della spesa per l’educazione terziaria (a prezzi costanti) è cresciuta per via dell’aumento del numero di studenti, rimanendo sostanzialmente stabile in termini pro capite.
Anche sul fronte della competitività, ci sono alcune ombre: nel periodo 1999-2010 i salari sono cresciuti a un ritmo superiore alla produttività con un trend inferiore ai paesi Pigs ma molto lontano dalla dinamica tedesca (dati Ocse). Infine, disaggregando i dati sul Pil si vede che l’andamento degli investimenti è piuttosto preoccupante, con variazioni negative sia nel 2009-2010 sia negli ultimi due trimestri del 2012.
Di tutto questo, nel dibattito politico attuale non c’è alcuna traccia. È scomparsa quasi del tutto anche l’immigrazione, che aveva regalato consensi alla destra xenofoba di Wilders. A parte la sanità, il tema che domina è l’Europa. Può sembrare strano in Italia, ma la campagna non sembra ancora entrata nel vivo. È abbastanza diffusa la sensazione tra i commentatori politici che a perdere sarà il centro. «I partiti tradizionali, PvdA (Laburisti) e Cdc (Democrazia Cristiana), stanno trovando crescenti difficoltà nello spiegare che cosa propongono, perché esistono e perché la gente dovrebbe votarli, essendo un po’ a favore di tutto e forse mai contrari a nulla», afferma Freek Staps, caporedattore per la sezione politica del NRC Handelsblad. Può sembrare strano nella società olandese che ha costruito il consenso sociale su strumenti come il Ser (Sociaal-Economische Raad), una sorta di comitato per la concertazione tra sindacati, associazioni padronali ed esperti esterni. «L’Olanda è sempre stata un paese dove i problemi si risolvono insieme e in cui partiti come il Labour e la Cda avevano un ruolo chiave da giocare, oggi tendiamo a polarizzarci un po’ di più», continua il giornalista.
Chi sembra beneficiare di questo processo di polarizzazione è il Partito socialista (Sp). I sondaggi sono difficili da decifrare e apparentemente poco affidabili nella storia olandese, ma negli ultimi rilevamenti i socialisti sono in testa davanti al liberali. Sotto la guida del nuovo leader Emile Roemer, alla guida dal 2010, il partito ha saputo consolidare il proprio elettorato tradizionale, i colletti blu e il sud del paese, con un linguaggio diretto e ricorrendo a una certa retorica anti élite e soprattutto anti-corporate (attaccando in varie occasioni le banche, per esempio). «Un elemento di forza poco sottolineato dagli analisti», dichiara Fiona Dove, del Transnational Institute, «è la modalità piuttosto tradizionale di raccolta del consenso, a livello comunitario, un porta a porta e con una organizzazione sul campo molto forte».
La crescita dell’Sp sembra intercettare il voto in uscita dal centro, ma il suo discorso riesce a catturare anche parte del voto di protesta che nelle precedenti elezioni era finito al populista Wilders. L’ambizione di governo non è un mistero e, rispetto al passato, il partito mostra sicuramenti toni più concilianti: «Anni fa tendevano a posizionarsi più contro, adesso quel tempo è passato e hanno abbandonato la postura più radicale», chiosa Staps.
L’Olanda ha sempre e solo avuto governi di coalizione, anche per il sistema elettorale, un proporzionale a liste aperte senza premi di maggioranza, e questo naturalmente induce a fare compromessi per ottenere l’accordo. Anche se i socialisti entrassero in posizione di forza in una coalizione di governo, gli analisti concordano che le concessioni sarebbero sostanziali e le posizioni finali molto più morbide. Più probabile che si arrocchino su questioni interne, magari per non perdere consensi della base e magari solleticando qualche pulsione populista (sull’immigrazione mostrano alcune posture contraddittorie); ma è difficile che su questioni internazionali i socialisti alzino il tiro.
Una tessera del mosaico sociale olandese che va seguita per capire gli sviluppi è il sindacato. Negli ultimi anni, anche a seguito dei processi di flessibilizzazione (pur con ampia rete di welfare) e di terziarizzazione, le organizzazioni dei lavoratori non hanno saputo mantenere il passo, perdendo quote di rappresentatività ma non il ruolo chiave nel modello istituzionale (tripartito) di gestione del conflitto sociale. Nella vulgata corrente si parla di modello Polder, con riferimento ai pezzi di terra strappati alle acque, e simbolo del dover lavorare insieme per vincere contro il mare. «Negli ultimi anni, i sindacati sono stati molto frammentati, soprattutto a seguito dell’accordo sul sistema pensionistico», afferma Arthur Elzinga, politico socialista e membro del Comitato dei Cinque chiamato a formulare una proposta di riforma della più importante confederazione sindacale, la Fnv, «e c’è stata una sostanziale divergenza tra la leadership e i membri più radicali, che vista la scarsa attenzione alla posizione sindacale da parte del governo di destra, hanno disapprovato l’eccessiva posizione dialogante della dirigenza. Adesso questi dissidi sono stati ricomposti, ma nel futuro, pur mantenendo un’attitudine dialogante, si prevede più libertà a livello settoriale nel fissare la strategia».
(www.sbilanciamoci.info , n.192/2012)