L’europeismo contraddittorio e retorico di Giorgio Napolitano
Ho aperto il libro di Giorgio Napolitano (Europa, politica e passione, Feltrinelli, 2016) per la curiosità di vedere come un rappresentante autorevole del main stream Ue faccia i conti con la situazione drammatica in cui sprofondiamo ogni giorno.
Confesso la mia sorpresa dinanzi alla sua scelta di descrivere senza mezzi termini lo stato comatoso in cui versa il processo di integrazione: caduta verticale del consenso popolare, blocco dello sviluppo economico e sociale, ripresa dei nazionalismi, imbarbarimento delle leadership. Sull’immigrazione una condanna netta della politica del filo spinato ovunque in atto (particolarmente forte la denuncia del caso ungherese) e appoggio incondizionato ad una prospettiva di accoglienza. Più in generale insistente e ripetuta affermazione dell’obbiettivo del federalismo politico come l’unico in grado di mettere in salvezza il progetto europeo. Non a caso Altiero Spinelli ha, nel Pantheon dei padri fondatori insistentemente riproposto nel libro, un ruolo di assoluto rilievo.
Contemporaneamente, piena adesione alla politica di austerità in atto, e rigetto fermo di qualsiasi “catastrofismo” prono a vagheggiare un’ ”altra” Europa. È “masochistica distorsione” (p.39) non accorgersi che il problema è quello della crisi globale. Ma i dati parlano chiaro. Tra il 2009 e il 2014 l’economia dell’Eurozona si contrae dell’1% e non recupera i livelli del 2008. Nello stesso periodo, senza guardare alla Cina (+52,9), gli Usa crescono del 7,8%, il Regno Unito del 4,5%, il Giappone del 2%. Non solo, continua Napolitano, proprio durante la crisi “le difficoltà hanno spinto a innovazioni significative, sul piano di procedure e di bilancio concertate” (p.71). Ma la proliferazione di accordi intergovernativi registratasi in questi anni di crisi ai danni del potere della Commissione (si pensi emblematicamente al Fiscal Compact del giugno 2012), persegue una direzione di marcia esattamente opposta a quella del federalismo. Per finire, piena e convinta accettazione della primazia tedesca: “Può portare fuori strada assumere atteggiamenti vittimistici e rivendicativi in chiave nazionale, in antitesi a chi rappresenta lo Stato membro di maggior peso nelle istituzioni comuni”(p.29). Per legittimare questa opzione si evoca addirittura Thomas Mann, che sono sicuro non amerebbe essere associato al terzetto Merkel-Scheuble-Weidmann.
Ma di chi allora la responsabilità dello sfascio? La risposta è netta: della politica.
(http://temi.repubblica.it/micromega-online , 14 giugno 2016)