Il potere digitale
di Stefano Rodotà
QUAL è il destino degli arcana imperii al tempo di WikiLeaks? Questa domanda rimbalza da un punto all’ altro del mondo. La via per trovare la risposta è indicata da un titolo del Guardian: “La rivoluzione è cominciata e sarà digitale”. Una rivoluzione annunciata, che non sarà fermata dall’ arresto di Julian Assange, per altro legato a ragioni che nulla hanno a che fare con WikiLeaks. Troppe reazioni di questi giorni palesano arretratezza culturale, ritardi politici, contraddizioni clamorose, incomprensione di che cosa sia la Rete, quali le sue dinamiche e i suoi effetti. E allora bisogna partire da una analisi della sua vera natura, dall’ intreccio tra rottura e continuità che in essa si manifesta, dal nuovo contesto politico e sociale, dalla incessante ridefinizione di che cosa sia trasparenza. In sintesi: a quale redistribuzione del potere siamo di fronte? Fughe di notizie riservate, rivelazioni di documenti segreti non sono una novità. Quel che cambia è la scala, la dimensione del fenomeno: la circolazione planetaria di masse ingenti di dati ha fatto divenire assai agevole il “cercare, ricevere, diffondere” informazioni. Sono le parole della Dichiarazione universale dei diritti dell’ uomo dell’ Onu sulla libertà di espressione. E l’ articolo 21 della nostra Costituzione sottolinea come tutti abbiano diritto alla libera manifestazione del pensiero con qualsiasi “mezzo di diffusione”. Questi principi valgono anche nel mondo nuovo della tecnologia digitale, ci ricordano che il tema è quello della tutela di una libertà preziosa, informare e essere informati, non a caso indicata dalla Corte europea dei diritti dell’ uomo come uno dei fondamenti della democrazia. Lo scandalo è WikiLeaks o l’ incomprensione e l’ inconsapevolezza degli Stati nell’ affrontare lo “tsunami digitale” che già caratterizza il tempo presente e sempre più disegnerà il futuro? È stata colta l’ opportunità tecnologica per far crescere quasi senza limiti la raccolta delle informazioni e la loro conservazione in banche dati sempre più gigantesche. Ma questo mondo è troppo spesso governato da una cultura assai simile a quella degli antichi archivi, protetti dalle loro stesse caratteristiche fisiche – carta, schede, dischi – che rendevano difficile l’ accesso e la circolazione delle informazioni raccolte. E invece le informazioni sono divenute sempre più facilmente reperibili, alla portata di molti, accessibili a distanza, agevoli da divulgare. Questa nuova dimensione della documentalità, sulla quale insiste Maurizio Ferraris, non è stata colta, soprattutto nei suoi effetti politici e sociali. Una sorta di delirio di onnipotenza dei gestori delle banche dati ha impedito di rendersi conto che crescevano, insieme, trasparenza e vulnerabilità. Ma soprattutto non si è avvertito che lì si stava depositando un nuovo sapere sociale, della cui importanza e utilizzabilità si rendevano conto piùi cittadini chei detentori delle informazioni. Questo solo fatto redistribuiva potere, ed era evidente che una così inedita opportunità prima o poi sarebbe stata colta. Bastava prestare l’ orecchio al rumore sociale presente in rete, dove si sono moltiplicati i siti che rendono pubbliche anche informazioni riservate, la cui fonte è molto spesso costituita da persone ben inserite nei luoghi ai quali le informazioni si riferiscono. Considerata la sterminata dimensione del mondo in cui questi fenomeni si manifestano , coincidente con l’ intero pianeta, e la moltitudine di persone che lo abitano, v’era solo da attendere il momento in cui si sarebbe passati da una scala abbastanza ridotta ad una globale. Quel momento è venuto. Stiamo davvero vivendo un cambio di paradigma.E gli effetti indesiderati non si affrontano con gli esorcismi o con l’ eterna riduzione di problemi sociali e politici ad affare d’ ordine pubblico. L’ “emergenza” WikiLeaks farà sicuramente aumentare la sicurezza fisica e logica delle banche dati, si intensificherà la caccia agli Assange di turno. Ma un nuovo mondo è lì, e non può essere rimosso. Sembra che siano già centomila le persone che fanno affluire nuovi documenti a WikiLeaks. E questo vuol dire che il modello è destinato a diffondersi, a divenire un elemento stabile nel panorama sociale. Le strategie politiche e istituzionali, allora, devono essere diverse, irriducibili alla logica della semplice repressione, svincolate dall’ illusione di restaurare gli arcana imperii. Come si dice? Nulla sarà come prima. È bene che sia così. Commentando la diffusione di documenti sulla guerra in Iraq da parte di WikiLeaks, Antonio Cassese ne ha sottolineato il valore etico, perché faceva conoscere l’ inammissibile ricorso alla tortura, con la sua negazione dell’ umano prima ancora della violazione dei principi minimi della democrazia. Davvero questo tipo di documentazione “alle genti svela/ di che lagrime grondi e di che sangue” la politica di potenza. Possiamo rinunciare ad una così importante trasparenza, o dobbiamo considerare benvenute le tecnologie che la permettono? Ma, al di là della tutela del segreto, si è giustamente osservato che vi sono rivelazioni che, pur benemerite nel loro contenuto generale, possono includere dettagli tali da mettere a rischio diritti fondamentali o la vita stessa delle persone. Qui si coglie un aspetto importante di questa vicenda, con una significativa congiunzione tra vecchio e nuovo mondo della comunicazione. WikiLeaks ha affidato selezione e diffusione delle informazioni a cinque grandi giornali, i cui giornalisti si sono impegnati proprio nel compito di evitare che la pubblicazione dei documenti mettesse a rischio vite umane o fonti giornalistiche, né rivelasse materiali tali da compromettere operazioni militari in corso. La vecchia stampa, data per morta, mette la sua autorevolezza al servizio del nuovo Internet. Pure le rivoluzioni, lo sappiamo, hanno bisogno di una certa continuità. E questa funzione della stampa di “certificare l’ attendibilità” può diventare ancora più importante quando si tratta di informazioni e documenti di cui sia dubbia l’ origine o la veridicità dei contenuti. WikiLeaks, dunque, si muove su diversi piani, adotta “strategie da bracconiere”, già ben note, sfruttando i vantaggi delle diverse legislazioni nazionali. Anche qui cogliamo una tendenza più generale, che precede e va oltre questa specifica vicenda. La Svezia non è solo il paese che chiede l’ arresto di Assange per stupro, ma il luogo dove una lunghissima tradizione di trasparenza garantisce un’ assoluta riservatezza sulle fonti. L’ Islanda ha appena approvato una legge che legittima la pubblicazione anche di documenti segreti; il governo tedesco ha preso una iniziativa nella stessa direzione, come aveva già fatto la Corte di Strasburgo e come sta avvenendo in molti paesi. È bene essere consapevoli che WikiLeaks enfatizza e rende più evidente una linea istituzionale che si diffonde e si consolida, che mette al centro il diritto di sapere come opportunità offerta a una democrazia sempre più catturata da altri meccanismi. Gli Stati più consapevoli mostrano di sapere che non ci si può arroccare nel segreto. Sta cambiando l’ intero ambiente istituzionale. Solo se si parte da questa constatazione si può poi affrontare il tema dei possibili bilanciamenti tra trasparenza e riserbo. Il Premio Nobel Liu Xiaobo ha detto che “Internet è un dono di Dio alla Cina”. Solo a questa?
(articolo tratto da “La Repubblica” dell’8 dicembre 2010, pag.1 e 31)