I cattolici per Trump: come da copione

di Masimo Faggioli*

L’ascesa di Donald Trump nella corsa alla nomination repubblicana per la presidenza nelle elezioni di novembre prossimo si consolida sempre più.
Il consenso di cui gode il suo messaggio xenofobo e nazionalista si sta allargando a vari gruppi demografici, sociali e religiosi: inclusi i cattolici americani (la singola Chiesa più grande del Paese).
Il fatto inquietante è che Trump ora raccoglie la maggior parte dei voti dei cattolici in quegli Stati (come il Michigan devastato dalla deindustrializzazione) in cui i cattolici rappresentano una parte numericamente importante della popolazione bianca.
Il fatto che una maggioranza di cattolici repubblicani voti per Trump è inquietante, ma non sorprendente, in quanto conferma alcune tendenze politiche all’interno del cattolicesimo statunitense.

Nelle ultime tornate elettorali i cattolici americani si erano divisi in parti eguali tra democratici e repubblicani; ma l’elezione di Obama aveva mostrato una stratificazione del voto dei cattolici per linee non solo ideologiche e sociali, ma anche etniche e razziali (il termine razziale è ancora largamente usato nel vocabolario del politicamente corretto made in Usa).
Nelle ultime due elezioni presidenziali i cattolici bianchi avevano votato in larga maggioranza per i repubblicani mentre i cattolici non bianchi avevano votato per i democratici. La candidatura Trump (che durante l’inizio della presidenza Obama si era distinto per le accuse rivolte al neo-presidente di non essere nato negli Stati Uniti e quindi di non essere stato legittimamente eletto) si inserisce quindi in una tendenza già ben visibile nel decennio precedente all’interno della chiesa americana. Come sempre in America, questione razziale e questione sociale si intrecciano e non sono separabili.

Indipendentemente da come andrà a finire la stagione delle primarie e da chi verrà eletto presidente, già ora l’irresistibile ascesa di Trump anche all’interno dei cattolici bianchi è rivelatrice di alcune dinamiche potenzialmente rivoluzionarie per questa Chiesa, che è una delle più grandi e importanti nel cattolicesimo globale. Una di queste è il ruolo dell’aborto nel rapporto tra Chiesa e politica in America. Dopo la sua legalizzazione praticamente illimitata da parte della Corte Suprema nel 1973, per quarant’anni la questione dell’aborto è stata la questione dirimente per la Chiesa americana: dal 1980 in poi specialmente i vescovi si erano schierati con i repubblicani per la loro posizione anti-abortista.

Buona parte dei fedeli aveva seguito i vescovi, vedendo in Reagan non solo il campione pro-life ma anche uno degli agenti dell’ascesa sociale del cattolicesimo americano. Oggi non più. L’agenda pro-life è scomparsa non solo dal Partito democratico (i politici democratici pro-life sono estinti, e sia Clinton sia Sanders sono convinti pro-choice), ma anche da gran parte del Partito repubblicano. Trump raccoglie il voto della maggioranza dei cattolici conservatori: nonostante non solo il suo stile di vita berlusconiano (le mogli in serie, il sessismo, etc.), ma anche nonostante la sua più che ondivaga posizione sull’aborto.

I vescovi statunitensi farebbero bene a interrogarsi sugli effetti di vent’anni di culture war sull’aborto, che ha portato il cattolicesimo conservatore ad appoggiare un candidato che contraddice più o meno su tutto non solo papa Francesco, ma i fondamenti stessi del magistero sociale della Chiesa.
Ma oggi come oggi i vescovi statunitensi sembrano non interrogarsi su nulla.
La Conferenza episcopale è in chiara crisi di leadership interna, e divisa al suo interno tra una piccola minoranza favorevole a papa Francesco, una larga maggioranza di conservatori alle prese con un pontificato che non riescono a decifrare, e una consistente minoranza di vescovi ideologizzati e sordi alla realtà.

Nonostante la richiesta di alcuni vescovi, nell’assemblea del novembre scorso la Conferenza episcopale votò contro la proposta di aggiornare il documento magisteriale pre-elettorale, Faithful Citizenship, che è ancora sostanzialmente quello scritto e pubblicato nel 2007 (cioè prima della devastante crisi finanziaria e prima dell’elezione di Obama). La Conferenza preferì non ridiscutere quel documento, in nome della “ermeneutica della continuità”, come disse il cardinale di Houston, Daniel Di Nardo.

*Massimo Faggioli è docente di Storia del Cristianesimo, University of St. Thomas (St. Paul, Minnesota)

(Adista, 10 marzo 2016)

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *