Guerra, politica e preghiera

di Raniero La Valle

Quando si muovono le flotte, si minacciano bombardamenti, si schierano i missili e ci sono di mezzo gli Stati Uniti e la Russia, c’è di mezzo una guerra mondiale. È la seconda volta che un papa ci si mette di traverso e (forse) riesce a evitarla. La prima volta fu con Giovanni XXIII, quando stava cominciando il Concilio, e il pomo della discordia era Cuba, e lui riuscì a salvare la pace. Ne venne poi fuori uno dei più straordinari documenti del magistero pontificio, la Pacem in terris, che riguardo alla guerra giusta, ai diritti, alla pari dignità della donna, alla libertà di coscienza, al costituzionalismo e all’ONU metteva la Chiesa in un luogo diverso da dove era sempre stata.

La seconda volta è ora con papa Francesco, quando siamo all’inizio del suo pontificato e il pomo della discordia è la Siria e lui è riuscito, finora, a fermare la guerra. Ne è anche venuta fuori una delle più alte azioni pastorali del ministero pontificio, la veglia di quattro ore dei centomila in piazza san Pietro, che riguardo al rapporto tra papa e popolo, tra parola e silenzio, tra devozione privata e liturgia pubblica e tra preghiera inerme e politica armata, ha dato alla Chiesa un’esperienza di fede quale forse non aveva mai avuto.

Non insistiamo sulle analogie dei due avvenimenti, anche se colpisce l’affinità, come cristiani, dei due interlocutori occidentali, Kennedy e Obama, la comune imprevedibilità dei due interlocutori russi, Krusciov e Putin, la simile povertà dei mezzi usati dai due papi, la radio papa Giovanni, una lettera papa Francesco, la stessa immediatezza del riscontro che hanno avuto i due interventi, la promessa del ritiro dei missili da Cuba, riguardo al primo, la promessa della consegna all’ONU delle armi chimiche in Siria, riguardo al secondo.

C’è piuttosto una novità da rilevare questa volta, ed è la concretezza politica dell’intervento di papa Bergoglio, che non ha evitato di entrare nel merito dello scontro, per destituire di senso la guerra sul piano della legittimità e dell’efficacia, dopo averla oppugnata sul piano umano e religioso.

I contenuti politici dell’iniziativa di papa Francesco, fuori dei momenti propriamente religiosi come l’Angelus, le omelie, la preghiera, si possono ricavare da diverse fonti.

La prima è naturalmente la lettera a Putin, come leader della Federazione russa e presidente del vertice di San Pietroburgo. In essa il papa denunciava gli “interessi di parte” che impediscono di trovare una soluzione che eviti “l’inutile massacro a cui stiamo assistendo”, e invitava i capi degli Stati del G20 a non rimanere inerti di fronte alle sofferenze della popolazione siriana e ad abbandonare “ogni vana pretesa di una soluzione militare”.

C’è poi la fonte del discorso fatto agli ambasciatori in Vaticano quella stessa mattina del 5 settembre dal Segretario per i Rapporti con gli Stati, mons. Dominique Mamberti, in cui alla condanna per l’impiego di armi chimiche negli attacchi del 21 agosto si accompagnava l’auspicio che si facesse chiarezza e fossero chiamati a rendere conto alla giustizia i responsabili, che dunque si supponeva non coincidessero col governo siriano. Inoltre il rappresentante della Santa Sede dichiarava assolutamente prioritario far cessare la violenza e indicava tre criteri per la soluzione del conflitto: 1) ripristinare il dialogo tra le parti e operare per la riconciliazione del popolo siriano; 2) preservare l’unità del Paese evitando la costituzione di zone diverse per le varie componenti della società; 3) garantire l’unità e l’integrità territoriale del Paese stabilendo nel principio di cittadinanza la pari dignità di tutti senza differenze di etnie o di religioni.

Infine c’è l’intervista del generale dei Gesuiti, padre Adolfo Nicolàs, che si può supporre esprimesse, quello stesso giorno, il pensiero del papa gesuita. Egli negava il diritto degli Stati Uniti e della Francia ad agire contro un Paese che aveva già tanto sofferto, e affermava che l’intervento militare in preparazione costituiva un abuso di potere: “Gli Stati Uniti d’America devono smettere di comportarsi e reagire come il fratello maggiore del quartiere del mondo”; diceva poi che finché non si accertasse chi avesse usato le armi chimiche, si poteva dubitare che gli Stati Uniti avessero “altri motivi per il previsto intervento” e aggiungeva infine di non poter accettare “che un Paese che si considera almeno nominalmente cristiano in una situazione di conflitto non possa concepire altro che l’azione militare e con essa portare il mondo nuovamente alla legge della giungla”.

In ogni caso la guerra ha avuto un rinvio; ma perdurando la lotta interna, l’assedio della flotta e il litigio tra Stati Uniti, Russia e Siria alle Nazioni Unite, il papa è intervenuto di nuovo il 18 settembre associandosi al Consiglio ecumenico delle Chiese per chiedere ai cattolici di unirsi agli altri cristiani nella preghiera per la pace; e di nuovo ha rivolto il pensiero “alla cara popolazione siriana, la cui tragedia umana può essere risolta solo con il dialogo e la trattativa” nel rispetto di tutti, “specialmente i più deboli e indifesi”.

(“Rocca”, n.19 del 2013)

 

 

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