Flessibili per la guerra
di Raniero La Valle
Se c’era una cosa che funzionava meglio quando c’era l’Unione Sovietica, era l’ONU. Paradossalmente si realizzava lì un equilibrio di poteri, come quello che dovrebbe funzionare in ogni democrazia, e anzi in ogni Stato di diritto. Forse non c’era una grande governabilità della comunità internazionale, ma almeno con l’impulso o con l’avallo dell’ONU la guerra non si poteva fare, perché il veto dell’uno o dell’altro dei Membri permanenti del Consiglio di Sicurezza l’avrebbe impedito. Veramente nel giugno 1950 l’ONU autorizzò la guerra di Corea, ma solo perché l’Unione Sovietica aveva disertato il Consiglio di Sicurezza (l’Aventino!) per protesta contro l’assegnazione del seggio permanente alla Cina nazionalista di Chiang kai shek invece che alla Repubblica popolare di Mao. Dopo di allora non ci fu più nessuna guerra patrocinata dall’ONU, e la guerra del Vietnam gli Stati Uniti se la dovettero fare da soli.
Da quando è finita l’Unione Sovietica, e “i grandi” sono stati tutti d’accordo, è stata invece un’orgia di guerre: il Golfo, i Balcani, l’Iraq, l’Afghanistan, la Libia, come se mai nello Statuto dell’ONU ci fosse stata l’interdizione del flagello della guerra e la proibizione non solo dell’uso della forza ma perfino della minaccia di usarla, tanto meno per cambiare un regime. Perduta l’occasione di una riforma delle Nazioni Unite, quale Gorbaciov, ormai troppo tardi, aveva proposto per costruire “un mondo senza armi nucleari e non violento”, la guerra è stata rimessa sul trono sovrano da cui era stata deposta, e l’ONU ne è diventata lo sponsor; ma non potendo fare la guerra chi è addetto alla pace, occorreva cambiare le parole che la rappresentano, sicché la guerra è diventata operazione di pace, intervento umanitario, difesa dei civili, instaurazione del diritto. Insomma, non può esserci più guerra senza bugia.
Non meraviglia pertanto che l’Italia, governata da Berlusconi, bombardi ora la Libia annegando i suoi voltafaccia in un mare di bugie, a cominciare dal chiamare “flessibilità” l’ordine di sparare dato ai suoi aerei, fino ad allora inoffensivi, quando l’unica flessibilità era quella di inchinarsi alla richiesta dell’augusto alleato americano.
La deformazione del linguaggio ha raggiunto il culmine quando il governo ha spiegato che con i missili di precisione, che l’Italia avrebbe usato invece delle bombe a grappolo, “come fanno i nostri alleati”, si sarebbe provveduto alla protezione della popolazione civile; e quando ha rivendicato di partecipare in tal modo “su un piano di parità alle operazioni alleate”, quando fino al giorno prima la disparità di un minore impegno offensivo italiano era stata giustificata con il buon gusto impostoci dal nostro passato coloniale nei confronti della Libia, proprio nel centenario della nostra prima aggressione a quel Paese. Non a caso il vescovo a Tripoli, mons. Martinelli, non ci ha visto più e ha chiesto le dimissioni di Berlusconi: unico vescovo finora ad averlo fatto.
E tuttavia non si tratta solo di una manomissione delle parole, come quella denunciata nel libro di Gianrico Carofiglio. È una politica, o meglio una non politica. È l’indifferenza cinica (sarebbe indulgente definirla col termine ratzingeriano “relativismo”) con cui sono considerate intercambiabili tutte le opzioni: patti di amicizia e guerra, basi concesse a terra o Tornado in volo; missioni “non violente” e bombardamenti; acqua pubblica o acqua privata; nucleare subito o nucleare domani; Alitalia italiana e Parmalat francese; astinenza legislativa sul testamento biologico o obbligo di legge all’alimentazione forzata; famiglia monogamica e bunga bunga. Tutto è frullato, la sola cosa che resta deve essere il potere, e la sola certezza che permane è che i giudici sono cattivi, pensiero comune del resto a tutti quelli che incappano in loro.
Le conseguenze sono devastanti. Ha confessato a Ballarò l’esperto americano Edward Luttwak, frequentatore abituale della Casa Bianca, che i capi dell’Occidente, Obama, Cameron, Sarkozy, cercano di parlare il meno possibile con Berlusconi, anche al telefono, perché temono il discredito che ne deriverebbe per loro e il danno politico che ne avrebbero nei confronti dei loro Parlamenti e dei loro elettorati.
Però anche i leaders dell’Occidente, a cominciare da Obama, dovrebbero contare meno sull’eloquenza e sulla magia delle parole, e porre mano a una vera riforma dei rapporti internazionali e a fondare un sistema di sicurezza in cui bombardare non significhi proteggere, e la pace significhi pace. Non basta che Obama scelga il basso profilo nelle guerre che si fanno, deve costruire, nei pochi anni del suo potere, un’alternativa vera al sistema di dominio e di guerra, un’alternativa che resista.
(“Rocca”, n.10 del 2011)