Berlino tra Kant e la catastrofe

di Ulrich Beck

La regola numero uno di una società mondiale del rischio recita: non lasciare mai che un rischio globale passi senza sfruttarlo, poiché si tratta di un’ occasione di fare qualcosa di grande. Tuttavia, la risposta politica non è necessariamente multilaterale e cosmopolitica.

Può anche essere unilaterale e nazionale. Disponiamo a questo riguardo di un chiaro esempio: la cancelliera federale Angela Merkel ha sfruttato la crisi monetaria europea per reindirizzare la politica finanziaria dell’ eurozona in direzione di un’ Europa tedesca.

Quando il rischio finanziario globale teneva con il fiato sospeso il mondo, venivano celebrati i governi capaci di prendere l’ iniziativa politica per salvare l’ economia mondiale da se stessa. L’ anno scorso il problema erano le banche; quest’ anno lo sono i governi. Ma chi salverà gli Stati dalla bancarotta statale? Il rischio della bancarotta statale non equivale alla bancarotta statale. Rischio significa l’ anticipazione della catastrofe nel presente, che va chiaramente distinta dall’ effettivo avverarsi di un evento futuro. Questa distinzione è importante perché le asserzioni di rischio prefigurano proprio quel futuro che si tratta di evitare. In questo senso i governi europei combattono contro ciò che finora era impensabile, ossia lo spettro della possibile bancarotta statalee del crollo dell’ euro, uno spettro che si aggira per i mercati finanziari. Fino a poco tempo fa l’ euro era considerato l’ ancora sicura della stabilità in tempi di turbolenze finanziarie mondiali. Di colpo nell’ unione monetaria europea si impone la decisione fondamentale: cooperare o fallire! Ho pensato: «Mio Dio, che opportunità! Se l’ Unione Europea non ci fosse, bisognerebbe inventarla per evitare il crollo dell’ euro». Immanuel Kant o la catastrofe! Se l’ euro deve essere forte e stabile, allora occorre tutta la buona volontà politica per promuovere la politica della pace con altri mezzi, per far compiere un passo in avanti decisivo al coordinamento e all’ integrazione della politica economica nell’ area dell’ euro.

Oppure per la Germania è giunto il momento di difendersi dall’ Europa – di difendere, cioè, il modello di successo tedesco dagli assalti dei vicini europei invidiosi, che vogliono risanare il loro deficit statale mettendo le mani nel borsellino dei tedeschi? La soluzione non è forse un nazionalismo reciproco, come quello che hanno in mente i pragmatici leader europei? In base ad esso, ogni Stato ha l’ autonomia e il dovere di gestire i propri problemi finanziari. Nello stesso tempo, ogni nazione deve riconoscere la sovranità delle altre nazioni europee, in modo che tutte le nazioni evitino le conseguenze negative per gli altri delle loro decisioni in politica economica. Questo punto di vista si basa su tre princìpi: parità di diritti, pacchetti di misure concordate e responsabilità reciproca. Ad essi se ne aggiunge un quarto: è rigorosamente vietato ampliare le competenze dell’ Unione Europea in materia di politica finanziaria. Questo modello di nazionalismo reciproco può andar bene per tempi di vacche grasse, ma in una fase di incombente crollo dell’ euro non può che fallire. Politiche di bilancio, politiche finanziarie, sistemi sociali e fiscali tra loro incompatibili diventano materiale esplosivo nello spazio nazionale e internazionale. Nessun Paese è abbastanza forte da tirare gli altri fuori del pantano. Nello stesso tempo, però, è evidente come tutti siano interconnessi: se uno Stato fallisce, rischia di trascinare con sé gli altri.

I rischi finanziari attuali comportano un “imperativo cosmopolitico”, cioè costringono alla collaborazione anche se gli attori principali, come la cancelliera federale tedesca, non ne vedono il motivo. Dopo il vertice dell’ Unione Europea di Bruxelles è stato detto che l’ accoglienza per la cancelliera Merkel è stata compassata, ma non ostile. In quell’ occasione essa ha dovuto affrontare una polemica nella quale tutti erano contro tutti. L’ imperativo cosmopolitico che alla fine ha indotto la cancelliera federale a rinunciare ad una difesa ostinata delle sue posizioni e ad accettare l’ idea di una condivisione europea degli oneri, si è infine manifestato in un “aperitivo”. Nei giorni precedenti il vertice dell’ Ue il governo federale tedesco aveva ripetuto in continuazione che il tema della possibile bancarotta di Stato greca non era all’ ordine del giorno. L’ incontro decisivo non è avvenuto nella forma di una seduta di lavoro ufficiale, ma in quella dell’ “aperitivo” prima del pranzo dei capi di Stato e di governo dell’ Ue: i sedici rappresentanti degli Stati dell’ Euro hanno preso l’ aperitivo separati dai rappresentanti dei Paesi che non appartengono all’ ammaccata valuta comunitaria.

Nella crisi da rischio a cui è esposto l’ euro si sono cristallizzati i nuovi rapporti di potere. Nelle situazioni decisive non entra in azione la Commissione europea, né il presidente dell’ Ue, né il Presidente del Consiglio, e nemmeno la Francia, l’ Italia, la Spagna o la Gran Bretagna; in caso di necessità entra in azione la cancelliera federale tedesca, spalla a spalla con il presidente francese Sarkozy. Angela Merkel non è Angela Kohl o Angela Brandt. Il cancelliere federale Kohl aveva affermato nel suo programma di governo per il 1991-1994: «La Germania è la nostra patria; l’ Europa il nostro futuro». E Willy Brandt aveva detto nella prima seduta del Parlamento della Germania riunificata: «Ora e, ci auguriamo, anche in futuro, essere tedesco ed essere europeo è tutt’ uno». L’ interpretazione data dalla cancelliera federale Merkel a questa dichiarazione tocca un nervo sensibile non solo dei vicini europei. La cancelliera federale non è nemmeno una Maggie Merkel, che fa valere con il pugno di ferro la logica del mercato in Europa. È Angela Bush. Così come il presidente americano Bush jr ha utilizzato il rischio terroristico per imporre al resto del mondo il suo unilateralismo della guerra contro il terrore, allo stesso modo Angela Bush ha sfruttato il rischio finanziario europeo per imporre al resto dell’ Europa la politica della stabilità tedesca.

Il marco tedesco era la moneta della potenza tedesca. Ora questo dovrebbe valere anche per l’ euro. Sull’ euro minacciato dal crollo viene successivamente e continuamente impresso il nazionalismo del marco. La premessa su cui poggiava la politica tedesca del secondo dopoguerra – cioè il multilateralismo – è stata sacrificata, in una sorprendente combinazione di autoreferenzialità, autosopravvalutazione e auto illusione, alla necessità della “stabilità dell’ Euro” nel nome dell’ “Europa”.

L’ offensiva della Merkel per un “euro tedesco” rientra in un quadro più ampio. Sia che si tratti di economia o di politica estera o di interventi all’ estero dell’ esercito tedesco, la cancelliera tedesca parla nel nome di una nazione che, come dicono i Francesi, repli en soi – è ripiegata su sé stessa; una Germania che non offre più l’ esempio dei più europei tra gli europei ma, al contrario, tiene in scarsa considerazione le sue obbligazioni e i suoi vincoli europei; una Germania che sceglie un futuro da “grande Svizzera”o da “piccola Cina” (eccedenze nelle esportazioni e riduzione della domanda interna); una Germania che ridefinisce il senso della storia costituzionale tedesca dopo la seconda guerra mondiale in direzione di uno Stato nazionale autoreferenziale; e quindi, non ultimo, una Germania che riporta in auge la “questione tedesca” dell’ Europa.

Ciò che in questo modo acquista una fisionomia politica è l’ illusione nazionale delle élite europee. Esse denunciano la burocrazia europea senza volto (come ha fatto ultimamente Hans Magnus Enzensberger) o il venir meno della democrazia (è questo il giudizio della Corte costituzionale tedesca sul Trattato di Lisbona – peraltro, un esempio clamoroso del nuovo unilateralismo tedesco), partendo tacitamente dall’ assunto del tutto irrealistico che sia possibile un ritorno all’ idillio dello Stato nazionale. Predomina la cecità della fede nello Stato nazionale di fronte alla propria storicità; l’ ostinata e sconcertante ingenuità con la quale si ritiene eternoo naturale ciò che due o tre secoli fa era considerato innaturale e assurdo. Questo nazionalismo intellettuale, questa chimera nostalgica non domina soltanto negli angoli sudici del populismo di destra europeo. Esso è trasversale rispetto alla distinzione destra-sinistra e si afferma anche negli ambienti più coltie intellettualmente raffinati.

Il modello tedesco del dopoguerra era il modello di una politica estera ultramoderna: postnazionale, multilaterale, acronimica, economica, molto pacifica sotto tutti gli aspetti; predicava l’ interdipendenza in ogni direzione, cercava amici ovunque, non vedeva nemici da nessuna parte: il “potere” era addirittura una brutta parola, sostituita con “responsabilità”, e gli interessi nazionali rimanevano come i tavolini stile Biedermeier, sempre nascosti sotto una pesante tovaglia, su cui erano ricamati i nomi “Europa”, “pace”, “collaborazione”, “stabilità”, “normalità” e perfino “umanità”. È soltanto un’ impressione, oppure l’ Europa unita nel preambolo della Costituzione non è davvero più la stella polare della politica tedesca e dell’ autocomprensione dei tedeschi? Se così fosse – e a questo riguardo è necessaria un’ appassionata discussione all’ interno dell’ Europa e fuori di essa – , allora i tempi migliori per la Germania e per l’ Europa sarebbero passati. Allora l’ Ue si ridurrebbea nient’ altro che una zona di libero scambio di lusso – nella società mondiale del rischio, dove nessun Paese può risolvere da solo i propri problemi.

Traduzione di Carlo Sandrelli.

(Articolo tratto da “La Repubblica” del 27 aprile 2010, pag. 1)

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