Vent’anni di populismo senza popolo

di Mario Tronti

L’uso della parola populismo ha oggi. per lo più, un significato negatico. chi fa politica populista non si definisce populista, viene piuttosto chiamato populista da chi lo combatte. Il populismo ha d’altra parte dei quarti di nobiltà storica. Pensiamo al populismo russo, una stagione che sta poi all’origine di una grande storia; al populismo nordamericano, tra l’altro molto legato a una prima formazione del partito politico; al populismo sudamericano, tutt’altro che defunto.
C’è però da marcare una differenza di fondo tra populismi di ieri e di oggi. I populismi storici avevano sempre l’idea di riportare la storia all’indietro, cioè di ritorno a una tradizione, nazionale o popolare, polemici quindi contro tutti i meccanismi dello sviluppo. I populismi di oggi sono esattamente il contrario: nascono in polemica con i retaggi del passato, vogliono innovare, non conservare. Anche se poi servono più alla conservazione che all’innovazione. Sono ad esempio nemici del Novecento, perché vedono e denunciano lì una storia irripetibile e comunque da non ripetere, la storia dei grandi partiti, delle forme organizzate della politica, dello Stato, con le sue regole e procedure e mediazioni, parlamentari, istituzionali. È difficile dire se è il populismo a produrre antipolitica, o se è l’antipolitica a produrre populismo. Certo si tratta ormai di due pulsioni strettamente intrecciate, che si alimentano a vicenda e a vicenda si sostengono, contribuendo a una deriva degli attuali sistemi politici verso una sorta di autodistruzione. In questo senso, c’è l’opportunità e la necessità di ripercorrere il processo che, dagli anni 80 in poi, è venuto avanti sotto il segno di categorie contingenti agitate come valori assoluti, quali innovazione, modernizzazione, nuovi inizi vari, dovunque e comunque.
Il problema è come salvare il concetto di popolo dalla deriva populista. Il rischio è che anche nei partiti, che una volta erano partiti di massa, che si chiamavano partiti popolari, vinca una involuzione di tipo elitistico, con slittamenti in alto verso la autoreferenzialità del ceto politico e in basso verso una cetomedizzazione del riferimento sociale. È chiaro che ci sono state trasformazioni profonde nella realtà di popolo, per le economie più sviluppate, dagli ultimi decenni del 900 in avanti. (…) Eppure tutte le trasformazioni non sono arrivate a distruggere il fondamento popolare anche delle più avanzate delle società contemporanee. Il lavoro diffuso e disperso sul territorio, il lavoro precarizzato, la mancanza di lavoro, la stessa immaterializzazione di molte attività e di molte figure di lavoro, la comune persistente condizione di sfruttamento e di alienazione, che si allarga dal lavoratore manuale al lavoratore della conoscenza, non fa, oggettivamente, da sola, già popolo, ma rende possibile la costituzione in popolo di praticamente tutte le persone che vivono di lavoro.
Anche quello di popolo è in fondo un concetto politico secolarizzato, assieme agli altri concetti politici moderni: sovranità, Stato, diritto. Popolo nasce come ordine sacro. Nelle Scritture, il Signore dice ad Abramo: ti darò un popolo. Jacob Taubes ci ha ricordato come, tanto per Mosè come per Paolo, si sia trattato di fondare un popolo, il popolo ebraico, il popolo cristiano. Personalità profetiche ed entità collettive storiche. Marx, a nome del movimento operaio, non ha forse fondato un popolo, il popolo del lavoro, i lavoratori come soggetto politico, capace di grande storia? La mia tesi è che un popolo, o viene fondato, o, se si autoinveste di propri idoli, come il vitello d’oro, allora produce populismo. Il capo di oggi non è il Principe machiavelliano, portatore di una missione, è il punto in cui si rapprende e si esprime un senso comune di massa, pulsionale, emotivo, vittima passiva di un precedente trattamento molto spesso mediaticamente orientato. Nel momento in cui non si è stati più capaci di dare voce alla società, di fare società con la politica, cioè di organizzare masse attive in lotta per i propri bisogni e interessi, ecco, da quel momento è venuta avanti una deriva populista.
Il populismo di oggi è legato molto più a condizioni esterne al popolo, che alla espressione di suoi intimi convincimenti. Non ci sarebbe spazio per il populismo senza il primato dei grandi mezzi di comunicazione, senza questa presa egemonica del virtuale sul reale, senza la dittatura del messaggio mediatico, che ha il compito di creare opinione e distruggere orientamenti. Il populismo di oggi è un populismo senza popolo. E mentre la categoria di popolo chiedeva e produceva pensiero, accade il contrario per la prassi del populismo, che nega in radice la riflessione, essendo pura e dura pulsione. Avete mai visto un capo populista che abbia bisogno di forze intellettuali di riferimento? Le «masse popolari» che diventano la «gente», esprime, lessicalmente, un passaggio, di fatto, dal tempo della politica come azione collettiva direttamente al suo opposto, all’agire cieco di individui massificati e subalterni.

(Una versione più estesa di questo articolo uscirà sul prossimo numero della “Rivista delle politiche sociali”)

(“L’Unità”, 7 maggio 2012)

Un pensiero riguardo “Vent’anni di populismo senza popolo

  • 31 maggio 2012 in 14:34
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    Due paroline su chi ha fatto da spalla a tutto cio’.
    Avete mai sentito i grancapi del centrosinistra, negli anni passati, rifarsi a qualche teorico di riferimento, a qualche intellettule di sinistra?
    Il loro massimo guru è stato Blair.

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