Un’autobiografica svolta di Resistenza
di Massimo Raffaeli
8 SETTEMBRE. Corrado, Milton e Ulisse: formazioni partigiane tra romanzo e memoir di scrittori come Cesare Pavese, Beppe Fenoglio e Davide Lajolo
L’8 settembre è la svolta che muta il destino di una generazione allevata dal fascismo nell’illusione di una italianità rediviva e, anzi, rivoluzionaria. Che lo stesso regime fosse viceversa una forza reazionaria, organica al grande capitale e alle istituzioni più retrive (a cominciare dalla Chiesa di Pio XI e, maxime, di Pio XII), quei giovani nati o maturati nel primo dopoguerra lo appresero tra la guerra civile spagnola e l’esito, presto rovinoso, della seconda guerra mondiale.
La caduta del regime, l’uscita degli antifascisti dalla condizione di clandestinità o di esilio, il progressivo organizzarsi della Resistenza segnarono dunque l’apice della Bildung generazionale.
NE SONO ESEMPIO (e tutti afferenti all’alveo da cui la Resistenza scaturì, il Piemonte orientale) due grandi romanzi e un memoir di alto valore letterario a firma rispettivamente di Cesare Pavese, Beppe Fenoglio e Davide Lajolo, caratterizzati da un’evidente impronta autobiografica che ne declina in maniera ogni volta differente il decorso. Al centro del romanzo pavesiano, La casa in collina (1948), c’è il personaggio di Corrado, un intellettuale che pur detestando i miti belluini della propaganda fascista e appoggiando moralmente la Resistenza se ne astrae, si rinchiude in un suo altrove («Da tempo ero avvezzo a non muovermi», confessa a un certo punto) e rimane un desistente.
Corrado è non tanto il portavoce quanto lo specchio ustorio di Pavese in persona che porrà ad insegna del proprio percorso il motto shakespeariano Ripeness is all («maturare è tutto»). Perciò l’inerzia di Corrado blocca la dialettica di reale e ideale, di vita e utopia, che ordisce qualunque Bildungsroman: egli rimane al di qua della linea d’ombra, assiste a una maturazione generazionale cui non può o non riesce ad aderire. (Quando uno studioso benemerito, Lorenzo Mondo, al principio degli anni ’90 editò un taccuino pavesiano degli anni di guerra, gonfio di risentimento e disprezzo verso gli amici antifascisti, Carlo Dionisotti – poi in Ricordi della scuola italiana, Edizioni di Storia e letteratura 1998 – ne concluse saggiamente che non era giusto chiedergli in retrospettiva ciò che Pavese non avrebbe mai potuto essere: «Il suo coinvolgimento nella cospirazione antifascista era stato accidentale. Dal confino, era tornato più solo e diverso di quanto fosse prima, più vulnerabile e però con una maggiore urgenza di scrivere, di assolvere il suo proprio compito»).
NON POTREBBE ESSERE più antipode l’orizzonte di Beppe Fenoglio e del suo romanzo terminale, Una questione privata (1963), che nella forma linguistica e stilistica di rastremata esattezza nonché nella sua precisa obiettivazione, scampa al ciclo memoriale e inconcluso di Johnny. Qui la pulsione del protagonista Milton, un partigiano dall’indole aspra e introversa, ha un obiettivo che diviene via via una caccia al santo Graal: il quale è per lui certamente lo sterminio dei nazifascisti (il monarchico e badogliano Fenoglio non ebbe mai un tentennamento, in proposito) ma nello stesso tempo è la conquista di Fulvia, la ragazza che, fra le note di Over the rainbow, abita in modo ossessivo il suo ricordo.
MA PROPRIO PERCHÉ così intimo, così «privato», il pensiero ossessivo di Fulvia si carica per paradosso di un senso universale, come se, in altri termini, Fenoglio suggerisse che non è lecito distinguere fra pubblico e privato quando sono in gioco e in grave pericolo la dignità e il senso stesso dell’essere al mondo. Nitidamente lo comprese Claudio Pavone nel suo fondamentale studio Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza (Bollati Boringhieri, 1991) che tante pagine dedica a Fenoglio: «(Nella sua opera) era difficile distinguere il privato da una normalità che la situazione di emergenza, pienamente accettata, faceva sentire lontana, estranea e persino nemica».
INSOMMA FENOGLIO delega a Milton la sua mutria medesima, un sentimento di radicale e selvaggia serietà di fronte alla vita e alle scelte che essa comporta: perciò Una questione privata è un romanzo di formazione esistenzialista dove Fulvia corrisponde, reversibilmente, al nome dell’amore e della libertà dall’oppressione. È la morte del protagonista, dallo scrittore allusa in clausola un attimo prima che Milton cada falciato da una raffica, a dare compimento al romanzo e pertanto a suggellare nella maniera più drammatica la dialettica di realtà e utopia.
L’uscita degli antifascisti dalla condizione di clandestinità o di esilio, il progressivo organizzarsi della lotta di liberazione segnarono l’apice della Bildung generazionale
Non per caso chi era stato maestro di Fenoglio al liceo di Alba, il filosofo Pietro Chiodi (partigiano anche lui e firmatario di un bellissimo libro di ricordi partigiani – Banditi, Einaudi 1975), un giorno avrebbe detto che il suo ex allievo scriveva non per banale necessitas ma per necessitudo, non per costrizione esterna ma per assillo interiore.
Infine, A conquistare la rossa primavera (1975) è la memoria che Davide Lajolo, il comandante «Ulisse», scrive di getto appena dopo la Liberazione e fa uscire nell’ottobre del ’45 come Classe 1912, titolo che rimanda alla data di nascita dello scrittore. Lajolo ha origini contadine ed è piemontese di Vinchio (Asti), ha un’ottima educazione letteraria che lega, giovanissimo, ai miti mussoliniani e all’idea che il fascismo sia la conclusione del Risorgimento, poi combatte in camicia nera a Guadalajara, lavora per il Pnf e il 25 luglio lo sorprende nella federazione di Ancona. Lo sbandamento dell’8 settembre lo riporta a Vinchio dove inizia un duro percorso di resipiscenza che lo conduce, all’inizio tra forti diffidenze e ostilità, a entrare nelle Brigate Garibaldi e a guadagnarsi sul campo il nome leggendario di «Ulisse».
LO STILE DI LAJOLO è denso, ellittico, la sua memoria è ascensiva e culmina nell’immagine della liberazione di Torino. (Basterebbe a dare il tono del libro una notazione come questa, ad apertura di pagina: «L’inverno batte ormai alle porte. Un vento freddo porta alla mattina l’annunzio che la vita partigiana diventerà ancora più aspra. Piove. I ragazzi con le scarpe rotte tirano qualche bestemmia. Coi calzoni corti fatti di telo da tenda si batte i denti»). C’è pure una quota di retorica, e qui si aggiunga ovvia e persino necessaria, con l’esaltazione del Pci ed un paio di riferimenti encomiastici a Giuseppe Stalin ma qui va ricordato ciò che oggi volentieri è ignorato o rimosso e cioè che il Pci fu la forza decisiva nella Resistenza italiana e che il nome di Stalin, del despota Stalin, non poteva allora, per il movimento partigiano, che essere sinonimo di lotta senza quartiere al nazifascismo.
Il protagonista del libro «La casa in collina» rimane al di qua della linea d’ombra, assiste a una maturazione collettiva cui non può o non riesce ad aderire
Lajolo tornerà al contenzioso autobiografico e alle scelte cruciali della propria giovinezza in un libro fra i suoi più belli, commissionatogli da Giacomo Debenedetti, che di A conquistare la rossa primavera rappresenta un bilancio e nel frattempo una mise en abyme, Il voltagabbana (1963).
A non troppi chilometri dal Piemonte che fu di Pavese, di Fenoglio e Lajolo, nascosto nel villaggio di Céreste, dipartimento delle Basses-Alpes, agiva un comandante partigiano, «capitaine Alexandre», noto per il coraggio e l’etica inflessibile. Si trattava del grande poeta René Char, che un giorno avrebbe scritto lui l’epigrafe per il Bildungsroman generazionale: «Sono nato come la roccia,/ con le mie ferite/. Senza guarire dalla mia giovinezza superstiziosa,/ in fondo a una fermezza limpida,/ entravo nell’età fragile».
(ilmanifesto.it , 8 settembre 2024)