Tony Judt, storico della nuova Europa

di Antonio Carioti

Neppure la malattia – la spietata sclerosi laterale amiotrofica che lo stava martoriando da due anni, fino a paralizzarlo dal collo in giù – era riuscita a far tacere lo storico britannico Tony Judt: aveva continuato a scrivere, dedicando proprio alla sua condizione menomata una serie di articoli sulla prestigiosa «New York Review of Books». Ma venerdì il male ha avuto la meglio su di lui: si è spento in quella New York dove si era trasferito negli anni Novanta, dopo un’ esperienza a Stanford, per dirigere un istituto di studi europei intitolato allo scrittore pacifista tedesco Erich Maria Remarque. Proprio nell’ Europa e nella causa della pace si possono individuare i temi conduttori della ricerca di Judt e del suo impegno civile. All’ Europa e alla sua straordinaria capacità di ripresa dopo la catastrofe della Seconda guerra mondiale aveva dedicato il suo capolavoro “Dopoguerra” (pubblicato in Italia da Mondadori): un affresco di circa mille pagine in cui le vicende successive al conflitto vengono ripercorse fino al 2005, con una particolare attenzione per i fenomeni sociali e culturali che hanno scandito la rinascita e la trasformazione del continente. Alla causa della pace aveva consacrato molte energie, fino al punto di mettersi in urto con ampi settori del mondo ebraico da cui proveniva. Nato a Londra nel 1948, discendente da una famiglia di rabbini lituani, era accorso in Israele nel 1967 per dare il proprio contributo alla difesa dello Stato ebraico durante la guerra dei sei giorni. Ma più tardi aveva preso sempre più le distanze dalla politica dei governi israeliani, fino a pronunciarsi per la creazione di uno Stato binazionale in Palestina. Uomo di sinistra, Judt non aveva mai subito il fascino dell’ utopia comunista. Anzi i suoi studi sul movimento operaio in Francia sono molto severi verso la sinistra di quel Paese, cui rimproverò di essersi lasciata incantare dal mito sovietico. L’ ideale di Judt era invece la socialdemocrazia: ne ammirava in particolare la capacità di coniugare economia di mercato, riduzione della disuguaglianza sociale, espansione dei diritti individuali. Benché si fosse trasferito dalla Gran Bretagna negli Usa, non amava l’ American way of life, soprattutto nella versione scaturita dalla svolta liberista di Ronald Reagan. A suo avviso il Welfare State era una conquista irrinunciabile. Il suo ultimo libro “Ill Fares the Land”, uscito da poco, è un’ appassionata e convinta difesa di quell’ esperienza, molto critica verso una sinistra occidentale ormai incapace, a suo parere, di proporsi come portatrice di valori alternativi rispetto al primato dell’ impresa e del profitto privato. Il richiamo alla responsabilità degli intellettuali verso la società, al loro dovere di tenere vivo il ricordo del passato anche nei suoi aspetti più sgradevoli, era un terzo importante filo rosso dell’ opera di Judt, affermato con vigore nel suo libro “L’ età dell’ oblio” (Laterza). Alla consegna difficile di combattere le interessate dimenticanze lo storico inglese è rimasto fedele con grande coerenza, fino a quando le ultime forze non lo hanno abbandonato.

(Articolo tratto dal “Corriere della sera” dell’ 8 agosto 2010, p.38)

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