Se i partiti, Pd tra tutti, viaggiassero con i pendolari
Le primarie infelici del Partito democratico rimandano al nodo della crisi stessa della politica, in Italia e forse anche altrove. Parlo del partito politico contemporaneo, del partito “moderno principe”, così come si è formato ed è venuto evolvendosi nel corso del secolo scorso; e parlo naturalmente della sua crisi, della progressiva delegittimazione, della deriva che gradatamente lo ha trasformato, da elemento di coagulo dal basso di interessi significativi qual è stato nella sua parabola ascendente, in articolazione esterna, dall’alto, di reti istituzionali che non sono più percepite come pienamente corrispondenti alla domanda dei cittadini. Il coperchio della pentola a pressione sociale.
C’è stato un tempo che il partito rifletteva fedelmente la società divisa in classi, o quanto meno scissa in interessi, contrapposti o comunque chiaramente identificabili: ne assumeva le ragioni profonde, le faceva proprie, le sintetizzava nella politica, trasferendole poi, filtrate, nella sfera alta delle istituzioni.
Quel tempo è finito quando le società contemporanee dell’Occidente hanno perduto la loro spina dorsale classista; quando nel singolo individuo, sempre più monade socialmente isolata, si sono condensate alla rinfusa identità sociali disparate e talvolta fra loro contraddittorie: lavoratore, e non sempre a salario e a posto fisso, ma al tempo stesso consumatore; eventualmente piccolo proprietario di una casa, e contemporaneamente fruitore di servizi pubblici, e magari percettore di pensione, e insieme piccolo risparmiatore, e assicurato, e certamente inserito in reti familiari larghe (e perciò coinvolto nelle problematiche di altri soggetti a lui collegati). Nell’arco degli ultimi 30 anni tutto, o quasi, è cambiato, nel panorama di un’Italia in intensa trasformazione. Tramontata la grande fabbrica di modello fordista per far spazio a forme decentrate di produzione; abbandonate per lo più le campagne, con imponenti fenomeni di urbanizzazione (e dunque avvento di modelli di vita specifici, com’è quello di chi vive sperduto nei grandi hinterland delle metropoli, ad esempio); cresciuto frattanto a dismisura il terziario ma in forme tanto variabili e complesse da non poter essere spesso unificato sotto un unico segno (la grande distribuzione, intanto, ha divorato la piccola e ai bordi delle città sono nati i “non luoghi” alienanti di cui parla Marc Augé); infine arrivata un’immigrazione composita, spesso di difficoltosa assimilazione culturale, ma che produce da sola il 4% del Pil.
A questa società in rapidissima e problematica evoluzione, sempre più dominata dai tempi frenetici imposti dalla tecnologia, tendenzialmente pulviscolare e priva di centri che la ordinino e le diano razionalità, deve oggi rivolgersi la politica. Dovrebbe, di quel background caotico, saper cogliere le linee essenziali, per formularne una sintesi. Dovrebbe orientarsi in quella babele di linguaggi e parlare a tutti facendosi capire. Più spesso si smarrisce invece, limitandosi di volta in volta a rispecchiare le spinte più vigorose che quell’universo di riferimento produce. Fa eco passivamente al rumore di fondo, non sa armonizzarlo in messaggi unificanti.
Partiti privi di bussola, insomma. Che vivono alla giornata. Che seguono impulsi momentanei, sulla base dell’unica stella polare dei sondaggi. Cosa guadagno se dico o faccio una certa cos? Cosa ci perdo? Il tema è il consenso per il consenso: non il consenso per realizzare un progetto. Nessuna strategia globale è possibile, né un’interpretazione complessiva della realtà (chi ricorda ancora le “tesi”, sacre tavole al centro di ogni congresso che si rispettasse?). Men che meno è dato sapere qual è l’identità dei partiti di oggi, e dove vanno. Parafrasando il poeta (ci si perdoni): “codesto solo oggi possiamo dirti, ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”.
Questi partiti, nello specifico il Partito democratico, giocano confusamente oggi la partita ardua delle primarie. Ardua per due motivi: 1) perché i partiti non sanno più leggere la realtà che cambia, soffrono – come dire? – di una lentezza di riflessi che impedisce loro di cogliere la velocità e l’estrema frammentazione (e dunque la straordinaria complessità) caratteristica dei processi sociali dell’epoca attuale; 2) perché esiste negli elettori liberi un riflesso irrefrenabile a “disobbedire” ai partiti, a ragionare “di testa propria”, a seguire piuttosto logiche non generali ma particolari..
Non è più l’appartenenza, infatti (salvo che in settori marginali) a determinare lo schierarsi da una parte o dall’altra. E’ invece l’opzione del momento, il gusto di scegliere di volta in volta, talvolta di punire il partito o lo schieramento che ci ha deluso; è un insieme di sentimento e razionalità ma mixati ogni volta secondo proporzioni insondabili. Non necessariamente la scelta parte dai grandi temi, più spesso dipende da input minori (legati alla realtà quotidiana vissuta localmente). Si misura non sui programmi ma sulla rappresentazione che di essi danno i partiti e i loro uomini (inutile approvare solenni codici etici se poi hai in quella città o provincia un dirigente che ruba). Chiede linguaggi nuovi (più internet e meno comizi, ad esempio). Deve rispondere alla frammentarietà di una domanda sociale sempre meno aggregata (cioè si rovescia sulla politica un insieme di sollecitazioni molto delimitate, ognuna delle quali richiede una risposta a sé).
Ne consegue, se l’analisi è fondata, che si deve cambiare l’atteggiamento col quale i partiti, il Pd prima di tutti che le ha inventate, affrontano le primarie. Che intanto vanno lasciate il più possibile libere di esprimersi autonomamente, ricordandoci che il Pd dice di essere un partito di cittadini e non di iscritti soltanto, e che le primarie sono state introdotte appunto per dare la parla ai cittadini, per supplire a un deficit di partecipazione che il partito delle tessere non sapeva più colmare. Dunque le segreterie nazionali e locali si astengano: se invece irrompono nelle primarie, con indicazioni di voto o, peggio, con designazioni dall’alto, esse negano in radice l’autonomia stessa dello strumento e ne contraddicono la logica interna. Anche per questo, il più delle volte, perdono.
Poi c’è un piccolo vademecum da applicare (“come fare le primarie senza esserne travolti”, potrebbe intitolarsi): il Pd ascolti di più; eviti di assumere posizioni in quanto partito; stia tra la gente (un tempo si diceva tra le masse): vada al mercato, prenda i treni dei pendolari, si mescoli ai ragazzi delle scuole, parli con i ceti medi a rischio di retrocessione, condivida le ansie di chi non ha più lavoro e di chi il lavoro non l’ha mai trovato. Scelga i suoi dirigenti locali tra chi nelle varie situazioni ha legittimazione di base; impari dalla realtà e non pretenda di guidarla da fuori. Viva, diceva uno slogan dei miei tempi, come pesce nell’acqua.
Se la società è frammentata, se non esistono più associazioni che da sole portano valanghe di voti, si parli ai singoli, lasciando perdere i patti più o meno negoziati con i soggetti istituzionali, le grandi alleanze sulla carta tra le segreterie. Si individuino le associazioni, i piccoli gruppi. Si dialoghi con la mappa variabile della domanda sociale disaggregata.
La politica, si diceva una volta, deve fare sintesi. Giusto: è il suo compito direi strutturale, senza il quale non ha neppure ragione di esistere una mediazione politica. La politica raccoglie la domanda proveniente dalla società e cerca, scegliendo in essa secondo una ragionevole bussola, di darvi risposta in termini politici (appunto). Ma per far ciò dovrà pure ascoltare. E le primarie sono il momento dell’ascolto: il cittadino, lì, è sovrano. Non vale dire che il popolo delle primarie può seguire falsi idoli, può “sbagliare”. Se questo accade (un caso tipico è stato il consenso verso Berlusconi nel periodo che abbiamo alle spalle) vuol dire che noi abbiamo sbagliato qualcosa. Che dobbiamo correggere la rotta. Il buon pilota, alla fine, si vede quando vira di bordo, prima di fracassarsi sugli scogli.
(“Sardianews”, 24 marzo 2012)