Ricostruire nuove reti comunitarie
Della coppia di concetti proposta dal nostro tema di oggi (“Beni comuni”), più del sostantivo mi interessa l’aggettivo: “comuni”. E’ una parola impegnativa, sulla quale conviene riflettere.
Cominciano dall’ovvio. Un processo molecolare, diffuso, ha investito in questi ultimi anni la nostra società, anche nelle dimensioni periferiche (come è stata ed è quella sarda). Pur essendo un processo complesso, dotato di articolazioni e variabili anche significative a seconda delle latitudini e delle aree geografiche, credo che si possa riassumere questo fenomeno con due parole: la rottura della comunità. Oppure – detto in altro modo – la frammentazione prima, la dispersione poi di quelle che erano un tempo le reti della solidarietà sociale e comunitaria.
Queste reti sono nel nostro paese molto antiche, e tenaci. Hanno retto per secoli e forse – nel celebrare l’unità nazionale – dovremmo insistere di più sulla loro “tenuta”. Sono le reti della famiglia, innanzitutto; e poi della famiglia allargata; e della comunità del piccolo paese; della parrocchia; della provincia italiana; e poi delle identità regionali; e le grandi reti di solidarietà tra le classi sociali sfruttate; quelle dell’associazionismo laico e religioso; e le reti degli interessi concreti organizzati su scala interregionale. Quando ci sono state le varie Caporetto (ne abbiamo avuto diverse, oltre a quella ufficiale) queste reti, specie le più prossime alle persone, hanno agito da collante sotterraneo e hanno tenuto insieme la comunità nazionale e quella locale.
La soppressione però di quei “mondi” che esprimevano le reti (il mondo popolare in senso vasto, il mondo o anzi i mondi del lavoro, il mondo del quartiere e del paese, il mondo della piccola borghesia degli impieghi, il mondo della media borghesia delle professioni), mondi che costituivano altrettanti universi entro i quali, un tempo, si svolgeva l’esperienza di vita dell’individuo, questa soppressione costituisce il dato più vistoso degli ultimi anni, direi il dato cruciale della crisi italiana attuale.
Per converso abbiamo assistito all’imporsi della tendenza alla frammentazione, all’isolamento sociale, alla riduzione degli interessi collettivi al rango di interessi (ma sarebbe meglio dire di egoismi) individuali.
Naturalmente è facile obiettare che si coglie qui nelle sue linee generali un fenomeno non necessariamente nuovo, ma anzi tipico in certa misura delle società del benessere o contemporanee, in particolare di quelle europee, in questo secondo dopoguerra, almeno dalla seconda parte del periodo che chiamiamo secondo dopoguerra (in Italia dagli anni ’60 in poi).
Il trionfo del capitalismo non solo come modo di produzione economico ma come sistema di organizzazione sociale genera dovunque, e soprattutto in quelle vaste realtà metropolitane che ne costituiscono il principale scenario, fenomeni di alienazione, nel senso proprio di una estraniazione dell’individuo dal suo contesto sociale, di un suo isolamento nel chiuso di una vita essenzialmente “privata”. La letteratura, il cinema, il teatro hanno come sempre preceduto l’analisi sociale e politica, individuando precocemente l’emergere di questo fenomeno. La televisione ha svolto un altro ruolo. Quella in bianco e nero, soprattutto, ha allargato i confini stretti dei piccoli mondi locali, realizzando la percezione complessiva in chiave tendenzialmente universale. Quella a colori, commerciale, ha contribuito a ridurre la platea del grande pubblico al rapporto individuale tra ricevente ed emittente, contribuendo non poco alla causa dell’isolamento individualistico. “Ladra di tempo e serva infedele”, per citare il celeberrimo anatema di Popper.
E’ cambiata profondamente anche la Sardegna. Dobbiamo rendercene conto, altrimenti poi sbagliamo nella proposta politica. La Sardegna non è più quella del dopoguerra, né quella degli anni Settanta e Ottanta. Per certi versi non è più neanche quella dei primi anni Duemila, quando Renato Soru, con un progetto di governo che fu il più avanzato che allora si potesse immaginare, ne tentò un radicale esperimento di governo che solo in parte produsse allora i frutti sperati e che oggi appare vanificato dall’involuzione successiva degli anni dal 2009 ad oggi.
Noi abbiamo purtroppo la tendenza a rappresentare la Sardegna secondo un cliché molto antico, cui corrisponde il paternalismo sociale col quale per secoli le classi colte, gli intellettuali della città, e spesso (lasciandosene suggestionare) anche gli intellettuali più legati al mondo rurale, hanno immaginato la realtà sarda. Isolamento, atavismo plurisecolare, una sostanziale lontananza dalla storia contemporanea, orgoglio e dignità del sentirsi sardi, fedeltà alle tradizioni, chiusura e continuità sono i tratti caratteristici di questa rappresentazione-cliché. In questo modo i sardi si sono auto pensati, e in questo modo sono stati visti dall’esterno. E’ un’immagine della Sardegna che un grande storico francese del Novecento avrebbe classificato con l’espressione ile conservatoire (contrapposte, le iles conservatoires, alle iles carrefours, cioè alle isole crocevia della storia e luoghi di mescolanza culturale ed etnica).
Certo, nei decenni che abbiamo alle spalle questo cliché è stato implicitamente messo in discussione: una controtendenza a questo modo tipico di autorappresentarci è stata specialmente la violenta e repentina (anche tumultuosa) modernizzazione del ventennio ’60-’70, quando sulla scena ha fatto irruzione la fabbrica moderna, e con essa un nuovo protagonista sociale come è stata la classe operaia. La Sardegna in quegli anni si è urbanizzata, non solo perché la popolazione si è condensata nelle città maggiori (specialmente l’area metropolitana di Cagliari) ma perché si sono affermati modelli di vita, di relazioni sociali, culture tipicamente urbani. Sicché si potrebbe con qualche approssimazione affermare che tra un ragazzo sardo degli anni Settanta e uno del continente non corresse poi una grande differenza: uguali tempi e modalità dell’esperienza di vita, simili i gusti a cominciare da quelli musicali, comuni le simpatie politiche ecc.
Ma più tardi la lenta agonia di questa modernizzazione, il suo avvitarsi in forme sempre più incerte di nuova identità (con conseguenze vistose di crisi, che hanno anche degenerato talvolta in forme di devianza distanti da quelle della criminalità tradizionale della Sardegna agro-pastrorale), ha provocato il ritorno all’idoleggiamento di quella concezione tipica, con effetti a mio avviso negativi sulla stessa capacità della politica di concepire un’alternativa seria al declino che ne derivava.
In Sardegna, nella Sardegna che abbiamo conosciuto da ragazzi, comunque, la comunità era un dato certo, il quadro naturale dello svolgersi stesso dell’esistenza delle donne e degli uomini. Comunità (cioè prossimità tra famiglie e individui), condivisione dell’esperienza, senso di appartenenza al gruppo. Esisteva la dimensione comunitaria del paese, ma anche quella del mestiere e della classe, della partecipazione civica e religiosa, dello svago in comune.
Esistevano i beni comuni, per quanto in presenza di uno spiccatissimo senso della proprietà privata (lo testimoniano le cause intentate nel corso dei decenni scorsi su questioni anche minime inerenti la proprietà: la Sardegna ha il record tra le regioni italiane); ma esisteva al tempo stesso l’idea comune della Sardegna: che è stata, in modo non retorico, all’origine di quel vasto e radicato movimento popolare del Novecento che chiamiamo l’autonomismo sardo (o sardista, se si vuole riferirsi al partito e all’ideologia che nel lontanissimo primo dopoguerra vi dato per la prima volta fiato).
Comunità, comunitario, comune, sono state parole non vane nella Sardegna che abbiamo alle spalle. Hanno per così dire “tenuto”, e hanno costituito un collante importante, sul quale si sono radicati i partiti popolari del Novecento e si è potuto distendere, come in un letto accogliente, il lessico nuovo della politica moderna.
Possiamo dire, allora, che la crisi della Sardegna (più in generale la crisi della politica nella realtà contemporanea, ma a noi qui interessa parlare della Sardegna) nasce precisamente su questo terreno? Da quello che io chiamerei un deficit di spirito comunitario?
Vediamo. Proviamo ad allineare per ora i dati della crisi. 1) Il tramonto della Regione come fulcro della comunità regionale (il top di quella concezione io lo vedo nei governi di unità autonomistica degli ultimi decenni del Novecento, con l’apertura a sinistra e la leadership dei morotei nella Democrazia cristiana) e la sua trasformazione in ente burocratico di erogazione finanziaria; 2) l’eclissi dei partiti politici come comunità omogenee costruite attorno a identità di classe e/o ideologiche; 3) la crisi della Chiesa come insieme di aggregazioni sul territorio di comunità di fedeli; 4) la crisi della comunità paesana, per effetto del processo di svuotamento dei paesi, della loro riduzione in molti casi a dormitori di individui occupati in attività esterne al paese; 5) la desertificazione delle zone interne per effetto dei processi di inurbamento.
Politiche recenti, anche recentissime (come ad esempio la tendenza a tagliare le scuole o i presidi di forza pubblica o i tribunali nelle aree interne periferiche) accelerano questi processi.
Che vanno invece contrastati, ma con intelligente capacità di discernere. Perché un conto è lo stato di un piccolo comune montano, aggravato da strade impossibili, in stagioni e condizioni metereologi che difficili; un altro quello del piccolo comune di pianura, servito da un reticolo stradale, situato a ragionevole distanza da centri maggiori. Una visione realistica del tessuto istituzionale deve misurare le distanze geografiche, ma non in astratto sulla carta bensì in concreto sull’esperienza delle popolazioni. E deve di volta in volta saper scegliere: dove il mantenimento dei servizi anche per densità demografiche minime, dove la loro concentrazione in aree vaste intercomunali, dotate di servizi e comunicazioni efficienti, con vocazione all’integrazione reciproca.
Il Pd, in quanto partito nuovo, basato sui cittadini più che sugli iscritti, proiettato nella vita sociale più che nella propria identità di apparato, può assumere in queste scelte un ruolo decisivo.
Bisogna innanzitutto però che il Pd si doti di una politica per il restauro delle reti comunitarie. Quindi che valorizzi nelle sue scelte concrete tutti quegli obiettivi attraverso i quali si possano produrre aggregazioni sul territorio. Il primo punto è l’inversione di quella tendenza per la quale la Sardegna è oggi rappresentabile come una ciambella, popolata sulle coste, desertificata al centro. Occorrono politiche pubbliche (nazionali e regionali) che incoraggino l’inversione di questa tendenza. Ed in esse va guardata con molta attenzione l’ipotesi di una specifica politica dell’immigrazione, del resto oggi suggerita da fenomeni episodici ma tuttavia non per questo privi di significato quali ad esempio la presenza dell’immigrazione (specificamente romena) nell’agro-pastorale. Uno scenario futuribile (non però a lunghissima scadenza) dovrebbe valutare i prossimi flussi di immigrazione dalle coste africane e l’opportunità che da essi possono derivare per una regione spopolata e in via di estinzione demografica com’è la Sardegna.Una Rinascita delle zone interne, insieme economica e culturale, dovrebbe rappresentare il primo punto fermo del Pd nell’immaginare la sua proposta politica per la Sardegna di domani.
Il secondo punto riguarda il modo come concepiamo il Pd, in Italia e – visto che vogliamo un Pd della Sardegna – in sede regionale. Io penso che l’analisi appena accennata sopra richieda un modello di partito diverso da quello tradizionale che ci ha consegnato il lungo Novecento. Non certamente un partito delle tessere e delle sezioni, ma un soggetto politico che sappia stare nel grande mare dei movimenti, con le antenne ben tese a captarne tutti i segnali. La politica dell’oggi, e ancor più quella del domani, mobilita non più su grandi progetti onnicomprensivi (ambiziose scalate al cielo nelle quali ci si prefiggeva di cambiare la realtà e la testa degli uomini) ma invece su cause specifiche, spesso sulla spinta di emozioni profonde che attraversano come onde la sensibilità e la percezione di donne e uomini che possono anche non avere, dal punto di vista materiale, interessi immediati in comune. Il Pd del futuro deve interpretare queste onde e restare dentro di esse, senza la pretesa assurda di rinchiuderle in schemi organizzativi del passato. Ci vuole dunque un Pd più coraggioso nel dire e nel fare le cose che possono anche apparire controcorrente, ma che spesso sono percepite dai cittadini come le cose per le quali vale la pena di impegnarsi: le questioni dell’etica pubblica, i diritti dei giovani ad affermarsi autonomamente, i diritti delle donne, delle minoranze, il grande e variegato universo dell’immigrazione, i diritti dei malati, quelli dei perseguitati e degli oppressi. Un Pd che deve anche stare nelle istituzioni, s’intende. Ma deve starci senza atteggiamenti proprietari, nella consapevolezza di svolgere un servizio alla collettività.
Ciò presuppone, anche in Sardegna (starei per dire soprattutto in Sardegna) una rifondazione del Pd sulla base dei suoi valori originari e un adeguamento a ciò dell’intero suo gruppo dirigente, maggioranze o minoranze che dir si voglia. Una riforma intellettuale e morale della politica capace di presentare ai cittadini, specialmente ai più giovani che oggi dalla politica si astengono, una proposta di quelle che non si possano rifiutare.
In questo contesto è uno specifico nostro obiettivo lavorare a costruire nuove reti comunitarie: potenziando e collegando tra loro le associazioni, creando nuovi linguaggi per la comunicazione politica, adattandoci più di quanto ancora non sappiamo fare alle potenzialità infinite del web, rinunciando a forme di liderismo basate sulla pura immagine e sostituendovi un lavoro di gruppo e di gruppi organizzati, non necessariamente in strutture interne rigidamente modellate su quelle del Novecento ma invece mobili e reticolari, che tengano conto delle peculiarità di una militanza politica che non può più basarsi sull’impegno a tempo pieno e sul funzionarismo di partito.
Nuove reti comunitarie: una solidarietà nuova che nasca dal basso; la ripresa di collegamenti, fili interrotti; lavorare per mettere il più possibile tutti a contatto con tutti; collaborare ad un grande progetto politico di recupero dei tessuti connettivi di questo paese. Non sono obiettivi da poco, se sapremo metterli in cima alla nostra scala di priorità.
(Testo dell’intervento tenuto alla Conferenza programmatica del Pd-Sardegna, tenutasi a Baradili il 28-29 ottobre 2011)