Quella spada sul capo dei giudici
di Valerio Onida
Una delle norme del progetto di riforma costituzionale approvato dal governo prevede che «I magistrati sono direttamente responsabili degli atti compiuti in violazione di diritti al pari degli altri funzionari e dipendenti dello Stato. La legge espressamente disciplina la responsabilità civile dei magistrati per i casi di ingiusta detenzione e di altra indebita limitazione della libertà personale. La responsabilità civile dei magistrati si estende allo Stato».
L’articolo 2 della legge vigente sulla responsabilità civile dei magistrati (n. 117 del 1988) stabilisce che «chi ha subito un danno ingiusto per effetto di un comportamento, di un atto o di un provvedimento giudiziario posto in essere dal magistrato con dolo o colpa grave nell’esercizio delle sue funzioni ovvero per diniego di giustizia può agire contro lo Stato per ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali e anche di quelli non patrimoniali che derivino da privazione della libertà personale». Lo Stato poi si rivale sul magistrato (art. 7).
Se invece il danno consegue a un fatto costituente reato commesso dal magistrato nell’esercizio delle sue funzioni l’azione di risarcimento può essere esperita direttamente nei confronti del magistrato (art. 13).
Qual è la differenza fra la riforma annunciata e la legge già in vigore? Non è quella di rendere applicabile anche ai magistrati l’art. 28 della Costituzione sulla diretta responsabilità dei funzionari e dipendenti dallo Stato, «secondo le leggi penali, civile e amministrative», per gli «atti compiuti in violazione di diritti»: infatti esso è già applicabile anche ai magistrati, come ha chiarito la Corte costituzionale (sentenze n. 2 del 1968 e n. 18 del 1989), ma consente diverse discipline.
Allora la differenza sta in quel «al pari degli altri funzionari e dipendenti dello Stato», se deve intendersi come «alle stesse identiche condizioni». Cioè non si potrebbe più differenziare il regime della responsabilità civile dei magistrati da quello degli altri dipendenti dello Stato.
Oggi infatti gli altri dipendenti statali rispondono direttamente per dolo o colpa grave, mentre i magistrati rispondono direttamente solo in caso di reato, e a titolo di rivalsa per atti compiuti con dolo o colpa grave. Inoltre, soprattutto, le ipotesi di colpa grave per i magistrati sono specificate dalla legge, ed escludono comunque l’attività d’interpretazione di norme di diritto e quella di valutazione del fatto e delle prove (art. 2, commi 2 e 3, della legge).
Ma – ecco il punto – una speciale disciplina restrittiva della responsabilità civile dei magistrati è necessaria, come ha chiarito la Corte costituzionale nella sentenza del 1989, «con la previsione di condizioni e di limiti a tutela dell’indipendenza e dell’imparzialità del giudice», perché l’attività del giudice deve essere resa «libera da prevenzioni, timori, influenze che possano indurre il giudice a decidere in modo diverso da quanto a lui dettano scienza e coscienza».
Ora, qual è la peculiarità dell’attività dei giudici? Essa, risolvendo controversie o applicando sanzioni, inevitabilmente “danneggia” qualcuno (colui al quale nel giudizio si dà torto, o l’imputato). Spesso il “danno” può essere ingente, come nel caso di cause miliardarie. Il problema è stabilire quando il danno è “ingiusto”.
Se fosse ritenuto tale ogni danno conseguente a una pronuncia che successivamente venga riformata o annullata, l’indipendenza del giudice che l’ha pronunciata, la sua soggezione “soltanto alla legge” (art. 101 della Costituzione) sarebbe inevitabilmente compromessa.
Il sistema processuale prevede apposta rimedi e gravami per correggere provvedimenti che si rivelino errati in diritto o in fatto, ma la pronuncia riformata non può essere addebitata al giudice che l’ha emessa, se non nei casi cui essa appaia frutto di dolo o di colpa grave, ad esempio di una “negligenza inescusabile” che conduca ad affermare «un fatto la cui esistenza è incontrastabilmente esclusa dagli atti del procedimento» (come prevede una delle ipotesi di “colpa grave” delineate nell’art. 3, comma 3, della legge).
Si può, certo, migliorare il sistema processuale anche per quanto riguarda l’azione per il risarcimento dei danni ingiusti causati da atti dei magistrati. Si possono e si devono studiare rimedi efficaci per combattere abusi o eccessi che possono essere compiuti da magistrati a danno dei cittadini, i cui diritti e le cui libertà la legge mette nelle loro mani. Si deve anche assicurare un adeguato risarcimento a carico dello Stato (peraltro già oggi previsto dalla legge) per ipotesi di errori giudiziari e di detenzione ingiusta.
Ma non si può esporre i magistrati alla “spada di Damocle” di azioni di danno per ogni pronuncia o atto da loro compiuto per attuare la legge, ma che, operando i rimedi previsti dall’ordinamento, siano ritenuti alla fine infondati o contrari alla legge.
(“Il Sole 24 Ore” 18.03.11)