Quale revisione costituzionale?
di Giovanni Bianco
1.L’argomento della revisione costituzionale è di certo ricco di suggestioni teoretiche e dommatiche, specie se colto nel prisma dell’ispirazione democratica della Costituzione, formalmente non messa in discussione con riferimento ai principi fondamentali che individuano la forma di Stato, ma sostanzialmente “modellata” a seconda delle maggioranze governanti e delle mai sopite tentazioni “costituenti”.
Se da un lato la Costituzione, rigida e programmatica, indica fini di lungo periodo da perseguire, le ragioni ultime del sistema democratico (piano teleologico), dall’altro è frequente il tentativo di riscrivere la seconda parte del testo costituzionale, quella che attiene all’organizzazione dello Stato repubblicano, anche attraverso soluzioni che finiscono con il ridurre la rappresentatività della forma di Stato democratica e la più completa attuazione del principio politico basilare dell’attuale forma di governo, quella parlamentare.
L’ultimo quarantennio è il lungo periodo nel quale, sul fondamento dell’idea fallace dell’inevitabile riformabilità della forma di governo vigente, prescindendo di frequente dalla volontà dei costituenti e dalle ragioni profonde del parlamentarismo, un persistente “presentismo costituzionale” ha di continuo avanzato soluzioni istituzionali volte a privilegiare la “governabilità” rispetto alla “rappresentatività”, dalle varie “riforme” elettorali ai tentativi di riporre in soffitta i meccanismi di funzionamento del governo parlamentare, sino alla recente ed avventata riduzione del numero dei parlamentari.
Quindi è del tutto inidoneo un astratto richiamo al “metodo democratico” delle revisioni costituzionali, attuate o da attuare, nel rispetto delle procedure costituzionali e del limite dell’art.139 Cost. nei confronti degli organi di revisione; si mira, ad esempio, ad alterare l’insieme dei congegni organizzativi che attengono alla dialettica ed alla compenetrazione tra esecutivo e legislativo, riducendo gli spazi della rappresentatività politica e della stessa dialettica democratica in nome di una mutazione della forma di governo, in senso semipresidenziale o presidenziale, sotto il segno di una perniciosa idea di “stabilità politica” e di “governabilità”.
Perciò la critica di un ricorrente uso strumentale, con evidenti cadute ideologiche, di parte e polemico, della revisione costituzionale assume un significato di salvaguardia dello “spirito della Costituzione” e di tutela dei congegni di funzionamento del Governo parlamentare.
C’è una sottile e subdola insidia nella “retorica della revisione costituzionale” e delle riforme istituzionali, quella di intendere quest’ultima quale il portato di un “nuovismo” che travolge la “tradizione costituzionale”, superata dalla volontà politica dominante e dalle esigenze storiche del presente.
Tuttavia la soluzione che si prospetta non di rado ben può essere persino l’anticamera di nuove forme di autoritarismo, pur nel formale rispetto delle garanzie costituzionali e delle procedure democratiche.
2.Peraltro, il tema coinvolgendo inevitabilmente la struttura portante della Repubblica democratica è senza dubbio politicamente ipersensibile e rischia di relativizzare pure il “paradigma antifascista” alla base del patto costituente del 1946.
Infatti, è fuor di discussione che un’ampia riscrittura della seconda parte della Costituzione, che mira a formalizzare, ad esempio, la transizione dal governo parlamentare a quello semipresidenziale, non può non finire con il riverberarsi sulla prima parte della Carta Costituzionale e sulla normatività dei suoi principi fondamentali, come suaccennato.
Revisionismo costituzionale? Trattasi di un quesito non retorico, bensì di una direttrice di lettura critica che concerne “formule omnibus”, portate a premessa e giustificazione di progetti di ampia riscrittura del testo costituzionale, sbandierate quali panacee, “grande riforma”, “nuova Costituzione”, “seconda Repubblica”, “Repubblica da riformare” ecc. Formule alle quali talora si ricorre per sostenere argomenti improntati a concezioni decisioniste, che risultano essere sospette perché alteratrici della stessa effettività storica e miranti ad un sostanziale accentramento dei poteri supremi dello Stato, ad una riduzione degli spazi di dialettica democratica, alla contrazione del ruolo delle minoranze politiche, ridotte a mera cornice della vita istituzionale e politica.
Il che non significa rinunciare a periodici ed opportuni interventi di “manutenzione costituzionale”, ma nel rispetto del complessivo assetto di freni e contrappesi predisposti dal sapiente costituente, dell’equilibrio tra i poteri per il perseguimento dell’interesse generale, proprio perché la revisione costituzionale, che è conforme allo “spirito della Costituzione”, non può che essere puntuale, inerente a singole norme costituzionali, senza con ciò voler auspicare un abuso di revisioni mirate , e sorretta da un ampio consenso anche nelle minoranze politiche e sociali.
In tal guisa può essere intesa la recente integrazione dell’art.9 Cost., con un nuovo comma che costituzionalizza “la tutela dell’ambiente, della biodiversità e degli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni” ed “i modi e le forme di tutela degli animali” con legge dello Stato.
Può discutersi sulla congruità o meno di un intervento del legislatore di revisione che attiene ad un principio fondamentale della Legge Fondamentale dello Stato, tuttavia è un aggiornamento del testo alla luce di diritti ed interessi emersi nella coscienza storica sopraggiunta, di suo adeguamento ad un nuovo contesto, ritenuto ragionevole perché non altera i fini indicati dall’art.9 Cost ma li integra, aggiunge ad essi ulteriori scopi fondamentali, non è espressione di concezioni parziali di una maggioranza politica ma di soluzioni ampiamente condivise.
Il costituzionalismo moderno-contemporaneo, di matrice liberale prima democratica in seguito, ha, a ben vedere, espresso concezioni, pur nella diversità delle ricostruzioni e nel confronto delle opinioni, che attribuiscono un significato né secondario né strumentale né occasionale alla scrittura dei testi costituzionali ed al loro puntuale aggiornamento proprio per la loro storicità; questo contrariamente a quanto affermava uno dei più lucidi interpreti delle dottrine tradizionaliste e controrivoluzionarie di inizio ottocento, Joseph De Maistre, che parlava di sovranità dello Stato e di Costituzione nel quadro del tradizionalismo quale “metaparadigma”, affermando che “ciò che vi è di più essenziale, di più intrinsecamente costituzionale e di veramente fondamentale non è mai scritto, e neppure potrebbe esserlo, senza esporre a pericolo lo Stato”(J. De Maistre, Precarietà della scrittura nelle istituzioni, in Saggio sul principio generatore delle Costituzioni politiche, 1814, tr.it., Sheiwiller, Milano,1975, 40).
Dunque, la critica delle revisioni costituzionali ampie o di parte, perciò ritenute non conformi alle stesse finalità dell’art.138 Cost., non significa il non voler porre l’occhio al cannocchiale galileiano, cioè il rifiuto aprioristico delle novità sopraggiunte ed eventualmente incontrovertibili, come fecero i filosofi neoaristotelici del tempo del Galilei, quelli dell’ “ipse dixit”, penso a Cesare Cremonini ed a Niccolò Cabeo, temendo di dover posare lo sguardo su un cielo ben diverso da quello rassicurante della tradizione filosofica e dei dogmi di fede.
(https://www.associazionedeicostituzionalisti.it/it/la-lettera/12-2022-sul-revisionismo-costituzionale)