Per Aldo Moro

di Giovanni Bianco

Circa un anno addietro recensii su questo blog due importanti saggi monografici su Aldo Moro, pubblicati entrambi in occasione del trentennale dell’eccidio di Via Fani e del rapimento e dell’uccisione dello statista, di Giovanni Galloni e di Corrado Guerzoni.
Merita di essere segnalato un altro bel volume sul medesimo argomento (“Per Aldo Moro”), edito pure lo scorso anno, dall’editore Quattroventi di Urbino, che raccoglie, con prefazione di Ilvo Diamanti e postfazione di Giuliano Crinella, contributi di elevato spessore culturale di Carlo Bo, Mario Luzi ed Italo Mancini.

Del primo, illustre critico letterario, si ripubblica una raccolta di articoli (dal titolo emblematico, “Delitto d’abbandono”) sul tema, editi su “Il corriere della sera” tra il marzo del 1978 e l’aprile del 1988,già pubblicata su “Il nuovo Leopardi” nel 1988.
La cristallina prosa del Bo ed il ritmo incalzante dei periodi non possono non colpire il lettore e questo ben emerge sin dal primo articolo, quello del 18 marzo del 1978 (“Il segno della coscienza”,p.11sgg.)
In esso si avverte lo sconcerto per il drammatico rapimento consumatosi due giorni prima, poichè si pone l’accento sul Moro cristiano e sulla sua “preveggenza politica” ed al contempo sulla “religione della morte” dei suoi rapitori.
Si legge, infatti, che Moro era un uomo consapevole della “certezza della nostra fragilità, della nostra soggezione alla volontà divina: di qui il bisogno di essere pronti all’evento incerto ma di cui ignoriamo le scadenze immediate”. Ma, al contempo, era un politico “lettore raro di segni ancora chiusi nel pozzo del futuro”, che “non ha mai fatto parte degli osservatori avversi e contrari della nuova società”,cercando, “nella sua lotta politica”, di “contrapporre al pessimismo tutti gli strumenti di correzione e di di riduzione che abbiamo”.
Così il Bo contrappone “il crepitio dei mitra dei rapitori”, che magari hanno colto soltanto l’apparenza più controversa di Moro, “la sua immagine che passa per ermetica, chiusa, addirittura contradditoria”, al “segno della coscienza” ed “alla voce umana”.
Particolarmente intenso è pure un articolo scritto il 10 aprile del medesimo anno (“Piccole danze sull’orlo dell’abisso”, p.17),in cui la cifra stilistica dell’acuto osservatore dei fatti drammatici che si stanno consumando in quelle ore terribili parla della crisi della cultura contmporanea, anche con un non condivibile eccesso di pessimismo. E’ scritto, infatti,che “alzata la bandiera del “se Dio non esiste, tutto è lecito”, si è finito per approdare alla sponda opposta e rovesciata del nulla che deve essere letta in questi termini: “tutto è lecito perchè nulla ha più senso”, o, ancora più rigidamente, “tutto è lecito perchè subito dopo Dio si è proceduto all’esecuzione capitale dell’uomo”..
Ma piuttosto vibrante è anche l’intervento del 10 maggio 1978, il giorno dopo l’omicidio di Moro (“Il politico e il cristiano”, p.22),nel quale l’analisi storico-politica di Bo, sempre svolta con prosa elegante e forbita, entra nei meandri più tragici del “caso Moro”.
Si ritiene, infatti, che “quando un anno fa, in un discorso che suscitò grande impressione e stupore per la forza e la compattezza delle affermazioni, Moro aveva detto che non ci sarebbe stato un processo in piazza agli uomini del suo partito era ben lontano dall’immaginare che proprio lui sarebbe stato il primo imputato portato davanti a un tribunale senza volto e senza tracce di riconoscimento.Tanto corre il tempo e cancella i segni primi della storia, tanto è diverso il processo che ne ha fatto una vittima doppia e un testimone contro se stesso, al di fuori di ogni possibile riferimento con quella che è stata l’evoluzione del diritto e della civiltà…Moro non ha soltanto pagato per gli altri, ha avuto – secondo il codice cristiano – il premio di rappresentare l’intera famiglia cristiana. Si è capovolto il fronte, il senso della storia, per cui Moro non è appena un’anima offesa e violentata, messa di fronte a Dio ma è qualcosa di più per gli altri, per tutti noi, è il simbolo dell’affrancamento spirituale”. Meritano di essere citati due altri molto pregevoli articoli: l’uno del 16 settembre 1978 (“Quelle lettere scritte aspettando la morte”, p.29 sgg.), in cui Bo ritiene che il senso più recondito delle lettere scritte dalla “prigione del popolo” sia un parlare “già dal di là,da un altro mondo che per quanto riusciamo a immaginare è il mondo dell’ultimo vero, quando si sente che stiamo perdendo la presa sul pezzetto di terra che ci è stato assegnato e stiamo per essere inghiottiti dal nulla che è ultimo ostacolo sulla strada di Dio”; l’altro del 9 maggio 1978 (“Delitto di abbandono”,p.35 sgg.),che manifesta indignazione e rabbia, perchè “a un anno di distanza del giorno in cui si è compiuto il calvario dell’uomo Moro, il bilancio delle nostre reazioni è nettamente negativo ma neppure questo dato appare la cosa più importante, ciò che colpisce di più è il modo incerto e inadeguato con cui si è guardato alla tragedia, il grado di progressivo adattamento allo stato naturale di inerzia che ci guida…”.

Del grande poeta Mario Luzi si pubblica una poesia dedicata a Moro, “Acciambellato”, inserita nella raccolta “Per il battesimo dei nostri frammenti”: “Acciambellato in quella sconcia stiva, crivellato da quei colpi, è lui, il capo di cinque governi, punto fisso o stratega di almeno dieci altri, la mente fina, il maestro sottile di metodica pazienza, esempio vero di essa anche spiritualmente…”.

Di Italo Mancini, filosofo cristiano e progressista, viene riproposta una raccolta di scritti edita nel 1996, “Per Aldo Moro”. Essi sono “Omelia del giorno di Settima” del 16 maggio 1978; “Spiritualità di Aldo Moro” del 9 maggio 1979 e “Per Aldo Moro” del 9 maggio 1988.
Il primo è il testo di un’omelia che Don Italo lesse ad una settimana dalla morte di Moro, in cui il sacrificio dell’uomo giusto viene inquadrato in una lettura cristiana della morte e del dolore: “all’inquietante e doloroso quesito perchè questo Dio della vita è anche il Dio della morte, risponde la Chiesa con la misteriosa proposta della sostituzione vicaria e del gesto sacrificale”(p.48); “a chi di fronte alla morte, come il Signore Gesù, ha avuto paura, sgomento, perchè essa è insensata, o, come dice Paolo (1 Cor 15,26), è l’ultimo nemico, e come tale l’ha sentita, e gli era sembrata inutile, quasi un primo passo di una catena dolorosa e assurda, da cui dovremo gridare forte che chi ha assassinato si ritragga per trovare per trovare nel consenso quello che la violenza (ma quanti modi ci sono di essere violenti?) non offre mai…”.
Il secondo è un saggio del 9 maggio 1979 (p.52sgg.), nel quale l’autore si sofferma anzitutto sulla figura di Moro e sul suo rapporto con gli elettori, “sulla capacità dialettica di inserire il particolare nel generale, di toccare sempre – anche nel piccolo episodio politico – la sponda del rapporto fra politica e visione generale; forgiare il rapporto in termini di attenzione e di costruzione con altre forze politiche, soprattutto quelle che guidano la spinta popolare”.
Si ricorda, poi, il Moro che partecipava dopo il ’68 ai convegni d’agosto ad Assisi,”uditore appassionato e attento, mescolato tra la folla, assolutamente non attore, schivo di tutto, tranne che dell’ansia di cogliere quello che emergeva di nuovo nei giovani”. Si sottolinea, inoltre, “il senso globale” dell’atteggiamento politico di Moro, connotato da “una fede personale viva, professata” e da “una assoluta libertà della lettura del mondo e del capitolo politico senza dipendenze integralistiche da nessuno, convinto che in questa realtà dell’uomo, proprio l’uomo dovesse essere attore principale e fondamentale”.
Dappresso il Mancini si interroga sul “progetto politico” di Moro, che mirava ad una “trasformazione della società italiana, tale da far coesistere l’impeto dottrinale dei partiti in una profanità e laicità così pluralistica che un confronto elettorale non debba continuare ad essere una scelta teologica”. Si evidenzia, dunque, un profilo molto attuale di Moro, la sua laicità “pluralistica” , il suo essere politico che mira ad “una scelta onesta tra programmi di governo e di partito”, ad “un progetto ideologico (nel senso attuale della parola)” e non ad “un assoluto terreno o extraterreno”. Molto suggestive sono le pagine dedicate al tema della violenza e della non-violenza (che Mancini ritiene “relativa” e “non assoluta”) ed alla scelta della maggioranza politica di non trattare con i terroristi. Sul secondo argomento l’illustre pensatore ricorda i suoi tormenti nei giorni della prigionia di Moro e ritiene che “il puro “no politico” non mi pare che sia il tutto della nostra pena e della nostra azione”. Cioè occorre chiedersi quale siano le cause del terrorismo e la fedeltà alla legalità repubblicana deve essere integrata da uno “sforzo di attenzione, di riscatto, di liberazione, comprendendo e rimuovendo le cause del fallimento vitale”. Ed alla luce di tali considerazione vale la pena di chiedersi se “ogni forma, e invenzione di trattativa, è sempre una resa e quello dello Stato è un valore incondizionato”.
Il terzo contributo del Mancini riprende tematiche già svolte nei primi due.
Ma aggiunge nuovi spunti e nuove piste di indagine: “Aldo Moro fu il più pio e il più laico degli uomini politici. Compì un capolavoro nella direzione pascaliana di far professione dei due contrari, che io, proprio pensando a lui, tradurrei come fedeltà a Dio e fedeltà alla terra” (p.64).

Qual’è la vera importanza di questo prezioso libro? Esso è una mera raccolta di fondamentali saggi o vuole sottolineare l’attualità degli argomenti che affronta?Ritengo che il suo significato possa essere colto in alcune frasi contenute nella prefazione di Ilvo Diamanti (p.7sgg.): “trent’anni dopo la morte, tragica, la memoria di Aldo Moro non si è perduta. Nè si è dissolta l’ombra del dubbio e del mistero, che ancora incombe intorno al suo rapimento”; “…sarebbe sbagliato fare di Aldo Moro un esemplare di archeologia politica; residuo di un passato, passato per sempre. La cui storia nulla ha da dirci,oggi”.
Così come altrettanto interessante è, al riguardo la postfazione di Giuliano Crinella (p.72sgg.), che esordisce richiamando il libro si Scoppola “La coscienza e il potere” del 2007 e l’idea secondo la quale “l’eredità di Moro agisce sul terreno morale, oltre che politico, al livello dell’identità del paese Italia”; e scrive che “la costruzione di uno Stato democratico all’altezza della moderna società di massa, rappresenta il motivo di una ricerca mai interrotta e il fondamento di una strategia di coinvolgimento delle forze a base popolare, di cui Moro è stato un protagonista lungo un ventennio cruciale”.

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