Paesaggi scartati
di Riccardo Ottaviani
La percezione di un’enorme quantità di materiale scartato prodotta dal modello di vita a cui siamo abituati ha portato negli ultimi anni al fiorire di riflessioni sempre più articolate sul concetto di “scarto”. Confrontarsi con quest’ultimo, d’altronde, è fondamentale se davvero s’intende dare concretezza ad azioni di circolarità del sistema e sostenibilità – sia questa ambientale, economica o sociale –. Da più parti si propone allora di riciclare, riutilizzare, rivedere i processi produttivi per un minor dispendio di risorse; di rado, però, l’idea di scarto viene estesa al territorio, nonostante quest’ultimo sia stato investito pesantemente dalle dinamiche di abbandono ed esclusione risultanti dal modello di sviluppo adottato dal Dopoguerra a oggi. Paesaggi scartati, edito da Manifestolibri a cura di Fausto Carmelo Nigrelli, riflette proprio di questo cambiamento epocale che il territorio sta vivendo, dove il divario fra i centri produttivi e le cosiddette periferie si fa sempre maggiore, portando spopolamento e impoverimento da una parte, sovrappopolamento dall’altra. Uno scarto fatto non solo di immobili, ma di interi paesaggi, con le relative relazioni sociali che li hanno costruiti negli anni. Il libro propone un’analisi approfondita delle dinamiche che hanno investito il territorio italiano, evidenziando come vi siano diverse tipologie di paesaggio scartato e avanzando alcune proposte per contrastare questo processo di disfacimento iniziato oltre cinquant’anni fa. Paesaggi scartati entra in profondità nella questione territoriale italiana, descrivendone gli inizi e gli sviluppi, per comprendere appieno come si sia arrivati a creare le condizioni per un abbandono di massa riguardante circa due terzi d’Italia. Una disamina su più livelli, quella scelta dagli autori, che riguarda aree montane, campagne e non ultime le città, per mettere in luce la necessità di un intervento politico tempestivo nel tentativo di arginare questi processi e ripensare il rapporto fra i territori.
L’approccio alla base di Paesaggi scartati è chiaro: per rispondere alle diverse crisi che i nostri territori stanno attraversando non bastano più soluzioni incrementali in continuità con il passato, è necessaria una rottura con le politiche degli ultimi decenni. Come evidenzia Nigrelli nell’introduzione al volume, «La convinzione è che non si può uscire da questa crisi con aggiustamenti progressivi, con un atteggiamento “riformista”, ma che è necessario un cambiamento radicale del punto di vista, delle priorità, delle politiche, delle azioni» (p. 9). Serve una presa di coscienza circa quanto sta accadendo nel territorio italiano – così come in buona parte dei Paesi sviluppati –, vale a dire uno squilibrio in costante crescita fra centri produttivi e periferie, che si sta dimostrando insostenibile su ogni dimensione. Servono nuove idee, insomma, per far fronte alla crisi economica e ambientale e alle difficoltà amplificate dalla pandemia, superando un modello di sviluppo che a forza di eludere i “limiti della crescita” vi si sta scontrando con forza[1]. Il paesaggio, inteso come l’insieme di interrelazioni fra fattori antropici e naturali, frutto di una stratificazione di processi secolari, non può che essere al centro di un’azione di rinnovamento politico.
Inquadrare le motivazioni alla base della crescita esponenziale dei paesaggi scartati non è cosa semplice. Il caso italiano, data una morfologia prevalentemente montana e una marcata diversità territoriale da Nord a Sud, è particolarmente complesso. L’inizio della questione territoriale contemporanea può essere inquadrato dal secondo dopoguerra, con l’avvio della migrazione di massa dalle montagne e dalle campagne alle industrie delle città, ma si tratta di un processo dalle radici più profonde, che riguardano l’urbanizzazione del nostro Paese già a partire dalla prima industrializzazione italiana. Successive politiche, dall’esito generalmente fallimentare, come la riforma agraria avviata negli anni Cinquanta del Novecento hanno poi acuito lo spopolamento delle aree rurali, depotenziando di fatto alcuni dei luoghi interessati – come nel caso del Delta del Po, ben evidenziato da Stefano Piastra, professore di Geografia presso l’Università di Bologna – con interventi quali espropri fondiari e bonifiche risultati fuori sincrono rispetto ai cambiamenti della società italiana, anacronistici in meno di un decennio (pp. 138-141). Si sono create così le condizioni per un abbandono generalizzato di intere aree italiane, che ha portato a quel surplus di immobili inutilizzati su cui è ora difficile intervenire. Ciò che non va dimenticato, però, come ricorda giustamente Nigrelli, è che queste condizioni sono frutto dell’azione umana, perciò reversibili. Per far sì che questo accada è necessario riscoprire quel che è venuto meno negli ultimi decenni: la progettualità politica.
Un ripensamento di lungo periodo è necessario soprattutto per le aree interne, dove spopolamento e degrado generalizzato rendono l’idea di “paesaggi scartati” più evidente che altrove. Sono diversi i capitoli del volume che affrontano questo tema, mettendo in evidenza numerosi aspetti critici da tenere in considerazione in interventi di sistema capaci di generare un impatto positivo su larga scala. Le pagine curate da Rossano Pazzagli, professore di Storia del territorio e dell’ambiente presso l’Università del Molise, mettono in luce alcune delle ragioni fondamentali del decadimento delle aree interne italiane. Pazzagli pone l’accento sulla rottura dei tradizionali collegamenti fra componenti territoriali, venuti meno con uno sviluppo sempre più autonomo del centro. Questa condizione di squilibrio sociale e territoriale, scrive, è «l’altra faccia del benessere portato dal boom economico degli anni Cinquanta e Sessanta. Uno squilibrio che senza cancellare la storica questione meridionale va ben oltre la visione dualistica Nord/Sud, presentandoci disuguaglianze crescenti tra città e campagna, tra montagna e pianura, tra le coste e l’entroterra. Queste fondamentali componenti territoriali, sulle cui relazioni e funzioni si è formata l’Italia, ora non dialogano più: si è spezzato il filo che le univa funzionalmente, rappresentato dalle filiere del cibo, dai circuiti energetici, dalle transumanze, dagli scambi culturali dei saperi esperti e contestuali» (p. 64). Il risultato è lo “scivolamento a valle” del Paese, fatto di borghi vuoti e litorali – troppo – pieni, con la relativa perdita del patrimonio storico e relazionale per fare spazio a paesaggi standardizzati, dove peraltro il cambiamento dei consumi e del turismo non fa altro che generare nuovo scarto – si pensi alle migliaia di colonie estive e alberghi abbandonati lungo le coste della Riviera romagnola o ligure. Il rilancio di aree economicamente depresse, come quelle della montagna esclusa dai flussi turistici, non può basarsi su irrealistici stravolgimenti produttivi, quanto piuttosto sulla comprensione delle peculiarità dei territori e il preservamento del loro valore. Il modello, nota Pazzagli, «non può essere quello della crescita competitiva: si tratta semmai di sottrarre questi territori dalla competizione globale, nella quale risulterebbero sempre perdenti» (p. 75). Valorizzare gli aspetti locali, tuttavia, non deve portare alla convinzione che lo sviluppo locale possa di per sé contrastare dinamiche di stampo globale e per certi versi “rivoluzionarie” – nel senso di una modificazione del territorio tanto veloce e tanto profonda da non essere mai stata sperimentata in passato – che evidentemente necessitano di un approccio più ampio. La governance locale va rafforzata, i piccoli comuni vanno messi nelle condizioni di avere un ruolo partecipativo, ma la guida principale spetta al governo nazionale. Inutile dunque sperare che iniziative “solitarie” possano sortire effetti a lungo termine. È il caso degli immobili venduti a 1€[2] allo scopo di ripopolare piccoli paesi oramai svuotati: operazione lodevole, eppure destinata a fallire se non vi è una strategia più ampia per attrezzare il borgo evitandone un secondo spopolamento. Allo stesso modo, il ripopolamento dei borghi non passa da “comunità autistiche” – come le definisce Paolo Castelnovi, presidente dell’associazione Landscapefor – composte da individui fuggiti dalla modernità social a favore di un isolamento sognato da molti “nuovi montanari”. Castelnovi mette in guardia sui rischi di tale approccio, attraverso il quale «l’insediamento montano in cui si abita viene vissuto più come un condominio piuttosto che un villaggio: genera problemi digestione dell’esistente piuttosto che spingere a progettare imprese collettive per garantire un futuro migliore a quel luogo e alle stirpi che lo abiteranno» (p. 86). Ed ecco quindi che alla necessità di una progettualità politica si lega la richiesta di una progettualità “civica”, per fare del borgo un paesaggio attivo.
L’abbandono dei luoghi e il disfacimento dei paesaggi, come detto, non è un’esclusiva di colline e montagne, così come non è concentrato geograficamente in una sola parte d’Italia. Piastra cita il caso del Delta del Po come paesaggio scartato “anomalo”. Collocato fra Emilia-Romagna e Veneto, due Regioni economicamente attive, completamente pianeggiante, eppure il Delta soffre da decenni di abbandono, in attesa di un rilancio che può avvenire riscoprendo il paesaggio d’acque precedentemente combattuto e ora valorizzabile attraverso i due parchi regionali. Una situazione simile è quella descritta da Gabriella Bonini nel capitolo da lei curato, Paesaggi scartati nella ricca Emilia. Le campagne del reggiano, provincia tra le più benestanti d’Italia, vedono il patrimonio storico rappresentato dagli immobili antecedenti all’agricoltura meccanizzata disgregarsi nell’incuria, per lasciare spazio al paesaggio agrario dell’agroindustria, funzionale alla produzione ma privo della rete di connessioni sociali del paesaggio rurale che caratterizzava l’area. Nel Sud Italia la situazione non è di certo migliore, con una quantità di immobili enorme descritta come «osso vuoto del Meridione» da Francesco Martinico, professore di Urbanistica all’Università di Catania. L’abbandono non ha quindi confini geografici definiti, colpisce ad ogni altitudine e latitudine. E per quanto si possa provare a nasconderlo dietro alla dialettica della “città resiliente”, o ancor più della “smart city”, riguarda anche numerose città italiane. Centri storici sempre più vuoti e periferie abbandonate a loro stesse sono i paesaggi di scarto cittadini. Le stesse dinamiche di accentramento del benessere verso i centri produttivi, che portano allo scontro “città-ricca/campagna-povera”, si manifestano con sfumature diverse nel territorio cittadino, dove i quartieri più economicamente sviluppati hanno un peso politico ampiamente superiore alle periferie, di cui ci si ricorda saltuariamente, magari in campagna elettorale.
Le problematiche che interessano gran parte dei territori fragili italiani sono dunque variegate. Paesaggi scartati ha il pregio di considerarle nella loro interezza, ripercorrendo la storia e cogliendo appieno le principali ragioni di una situazione così complicata. Nel volume si trovano poi diversi contesti specifici approfonditi dagli autori, come il caso di successo della Montagna del latte nell’Appennino reggiano – descritto dall’economista Giampiero Lupatelli – con una filiera locale pienamente inserita nel contesto economico moderno pur valorizzando al contempo il proprio paesaggio tipico; oppure le criticità evidenziate da Carmelo Ignaccolo legate allo sbarco di Airbnb nelle aree interne, fatto di potenzialità e possibili distorsioni che l’attività di una multinazionale non connessa al luogo specifico può portare. In definitiva, Paesaggi scartati è un lavoro ambizioso che riesce nel compito di descrivere la fragilità complessiva che la via di sviluppo scelta da metà Novecento sta portando al tessuto territoriale italiano. Nigrelli e gli altri autori del volume non risparmiano critiche a politici, architetti, urbanisti che hanno perso la concezione del paesaggio/territorio come insieme di valori che non si limitano alla capacità di sviluppo industriale. Il cambio di prospettiva è una richiesta sempre più urgente – e il riconoscimento di ciò, anche grazie alla pandemia, è arrivato persino da personaggi “insospettabili”, tant’è che occorrerà «un’azione di separazione del grano dal loglio che, in questo caso, è costituito dai tanti che di quel modello sono stati fino a oggi sostenitori, fruitori, beneficiari, come alcune archistar, e che, spiazzati in un primo momento, si sono immediatamente convertiti al “nuovo modello di sviluppo”, lanciandosi sul proscenio mediatico a indicare la strada possibile (della quale colgono solo gli aspetti superficiali e di consumo), dopo essere stati protagonisti del modello mainstream che ha un ruolo non secondario nella genesi della crisi pandemica» (p. 253).
[1] Di limiti della crescita si parla da tempo, più precisamente dal celebre report del Club di Roma The Limits to Growth datato 1972.
[2] L’iniziativa è nata alcuni anni fa, accompagnata da prestiti e agevolazioni fiscali per ristrutturare parte del patrimonio immobiliare in disuso nei borghi, rendendolo nuovamente abitabile. Questa pratica si diffusa in tutta Italia, tant’è che esiste un portale dove consultare gli immobili messi a disposizione su scala nazionale: https://casea1euro.it/
Recensione a Fausto Carmelo Nigrelli (a cura di), Paesaggi scartati. Risorse e modelli per i territori fragili, Manifestolibri, Roma 2021
(pandorarivista.it , 16 giugno 2021)