P2 e storia repubblicana: un’approssimazione
1. Manca ancora una storia della P2 che faccia tesoro della copiosa documentazione pubblicata dalla Commissione parlamentare d’inchiesta e delle carte attinenti ai processi relativi a quel sodalizio massonico. Una lettura attenta di questa documentazione aiuterebbe a superare l’interpretazione prevalentemente complottistica del piduismo e a ricostruire le origini e gli sviluppi di quello che è stato un corpo vivo e reattivo che evolse all’interno di una crisi politica interna e internazionale, in grado di cogliere e interpretare i sintomi di irrigidimento del sistema politico che aveva costruito la democrazia in Italia e di ideare una strategia per la fuoruscita da quell’ambito politico.
La stessa ascesa di Gelli all’interno della comunione massonica del Grande Oriente d’Italia nella prima metà degli anni Settanta mostra una serie di situazioni conflittuali. In molti tentarono, a più riprese, di bloccarne l’ascesa e il fatto che egli conseguì nel 1975 il grado di maestro venerabile della loggia coperta Propaganda 2 è da considerarsi un successo ragionevolmente insperabile. Questo successo si deve solo in parte alle attività interne al sodalizio massonico, cioè all’evoluzione interna della massoneria, e le sue ragioni sono da ricercare nelle molteplici relazioni interne e internazionale, massoniche e non, che Gelli poté utilizzare per la sua scalata interna.
Varie di queste relazioni (Argentina, Uruguay) ci inducono a vedere in lui un aspetto di una prospettiva politica di settori della destra statunitense che in piena guerra fredda operavano un contrasto anticomunista rude e brutale. Non casualmente, in Italia, già nei primi anni settanta la vicinanza di Gelli con ambienti dell’estremismo destra coinvolti nella strategia della tensione è attestata da vari procedimenti giudiziari ed egli compare, pur marginalmente, negli atti giudiziari di vicende quali il golpe Borghese del 1970, la strage dell’Italicus del 1974 e l’omicidio del giudice Occorsio del 1976. Ancor più significativa è la presenza nelle liste gelliane dei dirigenti dei servizi segreti civili e militari italiani degli anni Settanta; nella P2, cioè, si rinviene la più elevata consapevolezza delle tecniche «devianti», dei successi conseguiti e degli errori commessi; in breve, la memoria storica della strategia della tensione.
Ora, proprio attraverso la P2, si compì, negli ambienti dell’eversione e dell’intelligence, il superamento della strategia della tensione quale era stata operata sino allora. Il Piano di rinascita democratica (fine 1975) escludeva infatti una strategia eversiva finalizzata al rovesciamento del sistema (non per questo escludeva le pratiche violente, destabilizzanti, l’omicidio e la strage, come avremmo visto in seguito). La nuova direttiva piduista teneva conto del fatto che non si potessero più utilizzare le bombe nere dipinte di rosso, rivelatesi del tutto inefficaci, se non controproducenti, dopo la strage di Brescia del maggio 1974; ma teneva conto anche di un riposizionamento operato da quei medesimi ambienti della destra statunitense ai quali la P2 era collegata. Questi intuivano che le vicende degli anni 1974-75 (fine del fascismo in Portogallo, Grecia e Spagna, vicenda del Watergate, esito della guerra del Vietman ecc.) consigliassero una strategia meno frontale e più duttile nei nuovi scenari che si aprivano, peraltro segnati anche dalla conclusione del grande ciclo di sviluppo economico e civile europeo talora denominato dei trenta gloriosi.
2. Una pur sommaria ricognizione delle iniziative che, a partire all’incirca dalla metà degli anni Settanta, ricadono più o meno direttamente nell’ambito della P2 mostra che il sodalizio massonico ebbe vitalità e ramificazioni tali da rappresentare un nuovo punto di vista per il superamento degli equilibri politici e di potere vigenti nel paese.
Il sostegno a Michele Sindona e la mobilitazione piduista in difesa del suo sistema finanziario; la produzione e l’esportazione clandestina di oli lavorati tra il 1974 e il 1979 rese possibili dalla complicità di settori dell’imprenditoria petrolifera, dei vertici della Guardia di finanza, degli apparati ministeriali e del mondo politico (il cosiddetto scandalo dei petroli, manifestatosi con l’inchiesta giudiziaria del 1979); la ripresa e il rilancio del «metodo Sindona» da parte di Roberto Calvi, direttore del Banco ambrosiano, in collegamento con lo IOR, fino alla bancarotta dello stesso Banco ambrosiano; la capacità di pervadere ambienti della magistratura al punto di sferrare l’attacco contro Baffi, Sarcinelli e la Banca d’Italia (1979); la penetrazione finanziaria e politico-ideologica nel gruppo Rizzoli-Corriere della Sera; la penetrazione nei partiti, nel Parlamento, nel governo e nelle alte burocrazie ministeriali. Questo elenco delinea solo alcuni aspetti di un percorso che attraversò per intero gli anni Settanta determinando spostamenti di ingenti risorse, che coinvolse migliaia di persone e che, per la sua ampiezza, incise anche sulla qualità della classe dirigente e sul tessuto sociale del paese, nel senso che se è difficile trovare un filo unitario o una strategia che tenga insieme tutte queste operazioni, esse hanno però contribuito a ridisegnare il quadro della finanza italiana, creato nuove ricchezze e nuovi disastri e, soprattutto, hanno esteso ad ambiti diversi una rete di comunicazione in modo da rendere funzionalmente omogenee aree di potere tra loro distanti per ragioni istituzionali o storiche.
Questo sistema – che potremmo chiamare delle «reti comunicanti» – fu esteso a settori trasgressivi della società difficilmente riconducibili a comuni radici: non solo all’eversione nera (e ciò non era certo una novità), ma anche ad ambienti importanti del crimine organizzato quale, soprattutto, Cosa nostra. Per quanto riguarda quest’ultima, sembrano ricadere in ambiti convergenti con la sfera d’attività della P2 i due maggiori passaggi delle vicende della mafia negli anni Settanta, cioè la confluenza dei capitali provenienti dal narcotraffico nel circuito finanziario legale (il riciclaggio del denaro sporco e la mondializzazione del sistema finanziario mafioso, operati da Sindona agli inizi degli anni Settanta) e la crescita «politica» di Cosa nostra, che alla fine del decennio, con l’egemonia dei corleonesi, intraprese, parallelamente alla guerra interna di mafia, un inedito attacco allo Stato di straordinaria violenza che, nato come difesa armata della gestione politico-affaristica del territorio (omicidio di Boris Giuliano, luglio 1979, poi omicidi Mattarella, La Torre, Dalla Chiesa ecc.), era destinato a influire sugli equilibri nazionali e a concludersi solo negli anni Novanta. L’inizio di questa fase, impensabile senza la compiacenza di settori politici e statali e una corposa solidarietà di ambienti sociali non assimilabili alla cultura e all’ambito territoriale della mafia, non solo coincide cronologicamente con la massima espansione della P2 ma sembra anche mediato da un consapevole gioco di sponda che ruota attorno a figure come Gelli, Sindona, Pippo Calò.
Se è ancora difficile approssimare quanto, nel breve e nel lungo periodo, le scelte della mafia incisero su quelle della P2 e viceversa, non paiono invece esservi dubbi sul significato del rapporto. Sembrerebbe cioè che alla base del sodalizio vi fosse qualcosa di più rispetto al tradizionale uso che le classi dirigenti hanno talora fatto delle forze marginali, quasi un «democratico» riconoscimento del diritto all’eversione. Si tratta di un fenomeno complesso, forse unico nella storia dell’Occidente contemporaneo, che andrebbe indagato con chiavi interpretative specifiche e nuove, poiché ne derivò un concentrato di violenza antiistituzionale la cui estensione e potenza non erano date solo dalla somma dei singoli frammenti che lo componevano ma anche da un elemento paralizzante costituito proprio dalla trasversalità, cioè dall’originale combinazione di elementi trasgressivi e poteri tradizionali.
La P2 si presenta cioè come la maggiore aggregazione di Stato (deviato quanto si vuole, ma pur sempre Stato) e antistato mai conosciuta; la sua originalità era nella capacità di fornire una strategia – e talora una tattica – a settori politici e sociali che stentavano da soli a trovare una collocazione diretta nei confronti del potere, mettendo a disposizione di frammentarie energie «devianti» (i servizi deviati, il terrorismo nero, le organizzazioni criminali) un lucido disegno di potere.
I tre maggiori ambiti della P2 (servizi segreti ed eversione, finanza e corruzione, uso e potenziamento del crimine organizzato) appaiono tra loro strettamente intrecciati e disegnano un panorama che indica nella P2 un segmento qualificato della classe dirigente nazionale con un’evidente aspirazione egemonica; soprattutto questo aspetto ci convince che il fenomeno non vada interpretato solo o tanto sub specie di attività deviante e criminosa, ma che sia da leggere prevalentemente in chiave storico-politico-sociale, cioè che vada riconosciuta alla P2 la dignità di un importante movimento di trasformazione: quello che, in modo inatteso, si era creato nell’ambito della massoneria era in nuce la riaggregazione di strati sociali e d’interessi corporati sulla prospettiva di una radicale deregulation delle relazioni industriali e finanziarie che lasciasse anche mano libera ai soggetti militanti di un nuovo ordine privato da costruire sulla crisi della democrazia antifascista che aveva retto le sorti del paese. Insomma, tanto nel Piano di rinascita democratica quanto nelle attività riconducibili alla P2 è riconoscibile con chiarezza il progetto di superamento della «prima Repubblica».
Con la P2 veniva cioè fatalmente alla luce quell’Italia profonda che le maglie del sistema dei partiti avevano contenuto ma non dissolto, quell’immensa area a-partecipativa che aveva subito la Costituzione senza intimamente accoglierla, refrattaria e sostanzialmente indifferente alla democrazia; la stessa P2 emergeva, cioè, come l’avanguardia di una modernizzazione e di una forza politico-sociale non più marginalizzabile anche perché radicata in alcune trasformazioni fondamentali della realtà socio-economica e politica nazionale: da un lato, l’evoluzione del sistema produttivo, che spostava enormi risorse verso il settore terziario – con il conseguente indebolimento di quel formidabile presidio civile e democratico costituito dalla classe operaia organizzata –, e, da un altro lato, la percezione dell’impasse del sistema politico italiano, stretto tra una grave crisi di assetto civile (evidenziata soprattutto dalla corruzione, allora detta questione morale, e dalla violenza politica diffusa) e la necessità di allargare l’alleanza di governo al PCI, eventualità foriera di ulteriori tensioni poiché comportava il rischio di violare le colonne d’Ercole imposte dalla guerra fredda.
E, a questo proposito, non si possono non richiamare i due maggiori delitti politici del periodo, che ripresero i metodi della strategia della tensione ma con tecniche più subdole ed efficaci: il sequestro e l’omicidio di Aldo Moro (16 marzo-9 maggio 1978) e la strage di Bologna del 2 agosto 1980. Il primo spezzò definitivamente la possibilità di superare la crisi del sistema politico italiano (la «democrazia bloccata») sulle basi programmatiche dettate dalla Costituzione; l’altro, all’inizio degli anni Ottanta, tese a creare una cesura della memoria collettiva che seppellisse sotto le macerie della stazione ferroviaria di una città simbolo le tensioni democratiche e civili che avevano innervato la Repubblica. Nel primo, in pratica tutta l’intelligence era sotto l’egida piduista ed è realistica la ricostruzione secondo la quale l’intera vicenda del rapimento, del sequestro e dell’omicidio sia stata condotta con discrezione all’esito desiderato: la fine di Moro e la sua delegittimazione politica e morale. Nell’altro, Gelli e suoi sodali operarono – è res iudicata – per indurre gli inquirenti e la pubblica opinione a ritenere che gli autori fossero da ricercare in focolai terroristici internazionali, lontano cioè dalle tensioni interne e dalla tradizione stragista del neofascismo che costituirono le precondizioni del sanguinoso attentato.
Insomma, se non possediamo ancora elementi di giudizio che ci indichino con precisione quale sia stato il peso della P2 nel lungo processo di dissoluzione della «Repubblica dei partiti», non abbiamo dubbi sul fatto che questo peso vi fu e che possiamo rinvenire nel Piano di rinascita democratica e nella pratica militante piduista un disegno di potere realistico e di ampio respiro.
3. Ma la P2 è stata anche altro e non possiamo leggere quell’iniziativa se non in un percorso di lungo periodo, che giunge fino a noi con effetti ancora vivi e operanti. Il sodalizio infatti non fu annientato dai fieri colpi inferti dalla magistratura e dal Parlamento nei primi anni Ottanta: la stessa biografia di Berlusconi mostra come proprio nel periodo della sua milizia piduista, a partire dal 1978, egli pose mano alla costruzione del suo impero televisivo (del resto, lo stesso Piano di rinascita sosteneva si dovesse arrivare a coordinare un certo numero di emittenti private con l’obiettivo di «dissolvere la RAI-TV in nome della libertà di antenna ex art. 21 Cost.»). Se si riconosce appena in questi primi passi il disegno politico ed egemonico che avremmo visto dispiegarsi a partire dal 1994, la coincidenza tra l’adesione alla loggia massonica e l’inizio dell’edificazione del sistema televisivo sembra comunque imprescindibile. Semmai, viene da pensare che proprio il fatto che nel 1981 la trama piduista venisse scoperta (e quindi in parte neutralizzata nelle sue infiltrazioni istituzionali) pose Berlusconi in una situazione per qualche verso favorita, sia per la scarsa attenzione che allora la politica prestava al settore dell’emittenza privata, sia perché egli poté verosimilmente giovarsi delle solidarietà sopravvissute alla dispersione del sodalizio massonico.
L’edificazione del sistema televisivo e la successiva «discesa in campo» permettono dunque, senza forzature sostanziali, di riconoscere nel tempo lungo della P2 l’unica solida e coerente linea politica della destra italiana dell’ultimo quarantennio. Del resto, se non tutto il berlusconismo è riconducibile alla tradizione piduista (oltre all’uso delle televisioni, egli ha introdotto se stesso come figura carismatica in grado di mediare senza i consueti e necessari passaggi istituzionali tra il «popolo» e le leve dello Stato), la biografia di Silvio Berlusconi non appare comprensibile se non a partire da quella fondamentale esperienza.
Non si è trattato, però, della destra occidentale liberista e anticomunista conosciuta a partire dagli anni Ottanta negli Stati Uniti e nel Regno Unito, ma di un fenomeno tipicamente italiano – ancorché abbia tentato di «fare scuola» all’estero – compenetrato con l’illegalismo diffuso derivante dalle tare ereditarie di un processo liberale incompiuto (la mancata rivoluzione democratico-borghese, si diceva nella scorsa generazione) e con quello che ho altrove definito il «sommerso della Repubblica». Da questo punto di vista, la P2 è stata il maggior fenomeno eversivo della storia repubblicana (anche a prescindere dalle ricadute giudiziarie che l’hanno investita) e nel complesso – se tentiamo di ricondurre a un progetto unitario il variegato insieme delle sue attività – essa ha avuto l’obiettivo di travolgere il sistema democratico dando una diversa forma e un diverso significato alle istituzioni e alla prassi istituzionale, in particolare sostituendo la cultura democratica costituzionale-repubblicana con una pratica politica che dava luogo a un conflitto aspro, irresolubile e senza esclusione di colpi, tra forze nemiche reciprocamente delegittimanti, con la conseguenza di uno sfregio permanente e progressivo al sistema democratico. Questa traiettoria solipsistica, peraltro legata all’anomala sovraesposizione di una leadership carismatica, se da un lato creava una situazione di sostanziale ingovernabilità del paese, suscitava infine un crescente allarme in Europa, e più in generale nell’Occidente, per una deriva – politica, istituzionale, ma, forse, soprattutto morale – di un paese che, in una condizione di gravi tensioni economiche, avrebbe potuto contribuire allo smottamento complessivo dell’intero quadro politico-istituzionale europeo.
Si è cioè rivisto lo spettro di una variabile fuori controllo in grado di compromettere equilibri precari e delicati, come avvenne tra le guerre mondiali; e allo stesso tempo si è avuta la conferma dell’antica intuizione che in Italia la destra sola al potere tende a mettere in discussione tanto la democrazia quanto l’Europa.
Ma non è sufficiente neanche il collegamento con il berlusconismo per cogliere la portata storica del fenomeno P2. E, semmai, il suo stesso tramonto – che stempera alcune tensioni politiche e istituzionali ma non sana ipso facto la deriva della democrazia – indica che il berlusconismo può interpretarsi come perfezionamento in certo qual modo naturale di un guasto creatosi in un paese che già negli Ottanta si era dato un capo di governo come Craxi e un capo di Stato come Cossiga; cioè che il disastro democratico era già avvenuto allorché ebbe inizio il ventennio berlusconiano e che quindi la traiettoria piduista ha segnato non solo una fase politica ma un’intera fase storica dell’Italia e che non ne siamo usciti.
Ciò ci riporta a considerare gli anni Settanta come svolta storica e come momento di crisi, quasi di collasso, del sistema democratico-costituzionale. Se, infatti, il progetto piduista non ha portato alla fondazione di una nuova politica, se non è riuscito, com’era prevedibile, a fondare il nuovo Stato che era nei suoi voti e nelle sue aspirazioni (che qui e là s’è intravisto in alcuni progetti di riforma costituzionale), se, cioè, è stato sostanzialmente insignificante nella sua pars construens, la pars destruens è stata invece dirimente al punto che ancor oggi sia le forze antiberlusconiane sia le postberlusconiane si trovano a dover costruire la politica su un terreno reso infido da devastazioni recenti e lontane, prima tra tutte l’obnubilamento (quasi la cancellazione) del rapporto tra cittadino elettore e macchina politico-amministrativa, fonte della reazione, infantile ma comprensibile, dell’antipolitica.
Solo una narrazione realistica, convincente e non episodica dell’ultimo quarantennio potrà permettere di ripensare e ricostruire la nostra democrazia.
Bibliografia
– Si veda la documentazione pubblicata dalla Commissione parlamentare d’inchiesta contenente sei relazioni, 16 tomi degli atti dei lavori, 4 tomi sulle carte sequestrate a Castiglion Fibocchi, 9 tomi sui riscontri sull’attendibilità delle liste, 25 tomi di documenti allegati alle relazioni, 2 tomi sulle logge massoniche coperte, 20 tomi di documentazione su Loggia P2 e massoneria, 22 tomi su eversione e criminalità organizzata, 10 tomi su affari ed editoria (in Atti parlamentari, IX legislatura, doc. XXIII, n. 2; per la consultazione vedi gli Indici degli atti della Commissione parlamentare di inchiesta sulla loggia massonica P2, pubblicati nel 1995 dall’Archivio storico della Camera).
– Francesco M. Biscione, Il sommerso della Repubblica. La democrazia italiana e la crisi dell’antifascismo, Bollati Boringhieri, Torino 2003.
– Elisabetta Cesqui, La P2. 1979: un servizio di informazione nella gestione della transizione, in Studi storici, 1998, a. XXXIX, n. 4, pp. 999-1029.
– Comitato parlamentare per i Servizi di informazione e sicurezza e per il segreto di Stato, Primo rapporto sul sistema di informazione e sicurezza (approvato il 22 marzo 1995), Laterza, Roma-Bari 1995.
– Sergio Flamigni, Trame atlantiche. Storia della loggia massonica segreta P2, Kaos, Milano 1996.
– Mario Guarino, Fedora Raugei, Gli anni del disonore, Dedalo, Bari 2006.
– In difesa dello Stato, al servizio del paese, a cura di Giuseppe Amari, Ediesse, Roma 2010.
– Aldo A. Mola, Gelli e la P2 fra cronaca e storia, Bastogi, Foggia 2006.
– Alexander Stille, Il cavalier Miracolo. Citizen Berlusconi. La vita, le imprese, la politica, Garzanti, Milano 2010.
– Stragi e mandanti. Sono veramente ignoti gli ispiratori dell’eccidio del 2 agosto 1980 alla stazione di Bologna?, a cura di Paolo Bolognesi e Roberto Scardova, Introduzione di Claudio Nunziata, Aliberti, Roma 2012.
(Saggio pubblicato in “Loggia P2. Il piano e le sue regole, a cura di G.Amari ed A.Vinci, Castelvecchi editore, Roma, 2014, p.87-97)